Rossini a Roma

Guglielmo Tell. Accademia Nazionale Santa Cecilia; Mosè in Egitto. Teatro dell’Opera. Esecuzione grande a Santa Cecilia. L’aggettivo, una volta tanto, non è sprecato per l’ultimo lavoro rossiniano: dove l’idillio pastorale, il senso patriottico- romantico, la cornice neoclassica convivono in un affresco corale su cui si staglia l’eroe Tell che libera la svizzera dal tiranno Gessler, mentre il cavalleresco Arnold vive un amore infelice con la principessa Matilde. Coprotagonista è il coro, voce già romantica del popolo che Rossini cadenza in frasi ad ampio raggio fino alla conclusione finale. Qui l’inno alla libertà che scende dal cielo assume una valore universale e una vastità etica pari alla Nona Sinfonia beethoveniana. Ne ha fatta di strada il pesarese sino al 1829, anno in cui, da Parigi, dove vive, lascia per sempre l’opera, commuovendoci ancora per la bellezza melodica e strumentale, l’originalità della impaginazione scenica che farà scuola almeno fino al 1860. Difficile certo eseguire quest’opera, ma Antonio Pappano è direttore esperto. Fa cantare orchestra solisti e coro con melodiosità limpida, senza sbavature. Michele Pertusi è un Tell nobile e accorato, John Osborn un Arnold svettante, Norah Amsellem una Matilde drammatica. L’orchestra ha lavorato di cesello in ogni sezione, con morbidezza e precisione. Virtù necessarie per un lavoro che, come diceva Bellini, è la bibbia dei musicisti. E non solo. Al Teatro dell’Opera si è dato il Mosè, operaoratorio per la quaresima napoletana del 1818. La liberazione degli ebrei dall’Egitto si interseca con una irrisolta storia d’amore tra Osiride, figlio del faraone ed Elcia, ragazza ebrea. Ma sono i dialoghi Mosè-Faraone, più che i duetti d’amore, a dar sostanza a un affresco sacrale con la solennità dei recitativi, la maestosità delle arie e del coro, la preziosità del commento orchestrale; di nuovo vi è impressa una palpitazione serpeggiante, un’ansia emotiva già moderna. Rossini è più sobrio nel canto, innovativo nei timbri strumentali, punta ad una profondità che fa volare in alto l’opera, toccando il vertice nella preghiera finale Dal tuo stellato soglio, di una bellezza spirituale suggestiva. Certo, sarebbe piaciuto un allestimento meno cinematografico, senza la piramide sghemba in cui solisti e coro si muovevano a disagio, nonostante l’efficacia di alcune soluzioni sceniche e luministiche, nonché una regia forse più attenta al canto che allo spettacolo. Il quale ha fatto la sua parte, come Antonino Fogliani che ha diretto con impegno una partitura non facile ed un’orchestra non proprio in stato di grazia (tranne gli interventi del primo clarinetto o dell’ottavino). Michele Pertusi, Lawrence Browlee e Anna Rita Talento si sono cimentati con ardore nelle loro parti, coinvolgendo alla fine un pubblico che dopo due decenni si è gustato a Roma il Mosè.

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