Rossellini, visto da vicino

Roma. Al terzo piano degli ex studios De Paolis, sulla Tiburtina, incontro Vittorio Giacci, direttore della Nuct (Nuova Università del cinema e della televisione), studioso attento, da anni, di uno dei grandi maestri del cinema. Rossellini è scomparso nel ’77, a 71 anni. Quali contatti ha avuto con lui? “L’ho visto solo due volte, mentre era in vita: nel ’75 alla presentazione del Messia a Milano e poi a Roma. La mia conoscenza reale della sua opera e della sua persona è perciò arrivata dopo, lavorando su di lui, sistemandone gli archivi, collaborando con i figli, occupandomi del restauro dei suoi film. Mi sono accorto, come spesso accade, che il suo patrimonio non era conservato bene, c’era una scarsa memoria dell’uomo: perciò nel ’96 è nata l’Istituzione, di cui è presidente il figlio Renzo, un anno prima del ventennale della morte. Ma devo aggiungere che già nel ’76, da direttore dell’Ente cinema, avevo dato vita al progetto di restauro dell’opera di vari autori, scegliendo per primo proprio Rossellini. Attualmente, lavorando nell’Istituzione, e occupandomi della ricostruzione filologica dei suoi film, mi sto accorgendo come in tutte le arti, quindi anche nel cinema, l’opera di un autore sia molto più ampia di quello che viene fissato nella pellicola”. Com’era Rossellini, visto da vicino? “Aveva una personalità all’opposto del ritratto che i media ne fornivano: quello di un latin lover, amante delle belle macchine, un uomo fatuo. Anche se di questa deformazione in parte ne era responsabile lui stesso. In verità, Rossellini era uno studioso in senso rinascimentale, enciclopedico: ce ne siamo accorti risistemando la sua vastissima biblioteca, dove c’erano libri di ogni genere, e nemmeno uno di cinema. Era curiosissimo, uno studioso instancabile, il che spiega la seconda parte della sua filmografia, quella televisiva, dedicata allo studio sul sapere umano”. Ma era pure un uomo molto sensibile alla spiritualità. “Sì, essa è un filo conduttore dal primo all’ultimo film. C’è in lui un’attenzione incredibile allo spirituale, ma non solo nei film sui “santi”, come Giovanna d’Arco o Francesco d’Assisi, ma anche nelle pellicole “laiche” si ritrova questa tensione: opere come Stromboli o Europa ’51 sono delle vie crucis, degli itinerari che attraverso la sofferenza portano all’incontro con Dio. Credo che sia indiscutibile la sua attrazione verso il movimento religioso, perché restano ormai le sue opere, al di là delle sue stesse dichiarazioni”. Certo, oggi l’opera più popolare resta “Roma, città aperta”, un capolavoro del neo-realismo. “Rossellini non lo considerava il suo lavoro più riuscito, lui preferiva Francesco o Germania anno zero. Fra il resto, il film era stato girato in condizioni precarie, con produttori che andavano e venivano, le cineprese a noleggio, i problemi con gli attori… Il film poi non piacque subito in Italia, ma all’estero. Eppure, è un’opera che ha una felicità interiore straordinaria, grazie alla sua forza morale. Perché non c’è solo lo svilupparsi di una storia – diversamente sarebbe stato uno dei tanti film sulla Resistenza – ma un pensiero che guarda, un qualcuno dietro alla macchina da presa: i film fatti in questo modo contengono questa forza interiore. Certo, Rossellini si ispirò a fatti storici, ma poi li allargò ad uno sguardo ecumenico, universale. Succede spesso nel cinema: la sofferenza sul set trasforma il risultato e lo rende qualcosa che, a cinquant’anni di distanza, lo fa un’opera d’arte che parla ancora. Credo che questo film parlerà per sempre, per l’energia che contiene e si prolunga come un’onda, perché Rossellini ha preso dei personaggi – una donna un prete un antifascista – nel loro attimo di moralità assoluta e li ha trasformati in un atto simbolico che si può ritrovare in ogni uomo: sono valori che vanno ben oltre il piccolo fatto storico contingente”. Rossellini, da uomo libero qual era, è sempre stato molto esposto alle critiche. Gli successe anche con “Francesco, giullare di Dio”. “Un film distrutto dalla critica, quando fu presentato a Venezia insieme a Stromboli nel 1950. Lui ne fu amareggiato, perché gli si imputava di aver tradito il neorealismo, senza accorgersi che il primo a tradirlo era Rossellini stesso, perché era sempre alla ricerca di strade nuove. In un periodo in cui si voleva per forza che i film dessero dei “messaggi”, lui amava dire: “Non ci sono messaggi nei miei film, perché io non faccio il postino”. Comunque, quella volta scrisse su Epoca una lettera intitolata “Il messaggio di Francesco”, per far capire, al di là delle polemiche, che il messaggio c’era, eccome! “Diceva: “…Se, come vogliono alcuni, si può parlare di un mio cinematografico itinerario spirituale, direi che Germania anno zero è il mondo arrivato ai limiti della disperazione per la perdita della fede, Stromboli è il ritrovamento della fede,… e m’è venuta spontanea la ricerca della forma più compiuta dell’ideale di Cristo, che ho trovato nell’ideale francescano… quello della perfetta letizia…”. Un Francesco quindi quasi giullaresco, il suo. “Sì, Rossellini si ispirava soprattutto ai Fioretti. “L’umanità oggi – scriveva – per aver dimenticato la lezione del Poverello, ha perduto persino la gioia di vivere”. Francesco l’affascinava, ma Rossellini per tutta la vita ha mantenuto il rapporto con i francescani; ed anche con la chiesa istituzionale, visto che l’idea per gli Atti degli apostoli sembra sia nata dal testo che Paolo VI gli mise in mano durante un’udienza…”. Rossellini era affascinato dalle grandi figure della storia. Girò il Messia, ma si proponeva anche un film su Marx. Poi nacquero i film “didattici” per la televisione. “Rossellini amava l’uomo, nella sua dimensione corporea e spirituale. Per questo nel Messia accentuò l’aspetto umano – fedelissimo al vangelo – di Cristo (senza rinnegare quello divino), e per questo, convinto che il pensiero marxiano e quello cristiano fossero fondamentali nel Novecento, pensò pure ad una vita di Marx. Anche stavolta piovvero le critiche, perché Il Messia in Italia non andò bene, mentre – guarda i l caso – andò molto meglio a Parigi, negli ambienti proletari e studenteschi sur la rive gauche piuttosto che fra l’alta borghesia. Qualche giornale scrisse che i suoi film non erano “divertenti” e lui replicò: forse non è divertente “sapere”? Un risposta che spiega la svolta pedagica della sua filmografia e quindi l’accostamento alla televisione”. Per la tv il regista produsse vari lavori, fra cui “Gli Atti” e “La presa di potere di Luigi XIV”. Che ne pensava del mezzo televisivo? “Rossellini aveva una vocazione ecumenica, voleva arrivare a tutti, comunicare il sapere. Nato prima dell’avvento della televisione , ne intuisce comunque, prima di altri, la potenzialità quantitativa e qualitativa, e la usa in funzione “pedagogica”. Oggi noi vediamo il degrado della televisione – non si fa più cinema teatro poesia musica o letteratura, com’era negli anni sessanta – e pensiamo che ciò sia insito nel mezzo, ma non è vero. Credo che buona parte di questa strada sbagliata dipenda dal fatto che i grandi registi non si sono prestati a utilizzarlo. Se la lezione di Rossellini fosse stata seguita, oggi certo avremmo una miglior televisione e dato che essa modifica i nostri comportamenti, forse avremmo pure una vita di società e di relazioni migliore”. Quale può essere la lezione di Rossellini oggi, per i cineasti e per i giovani? “Per prima cosa, vorrei citare la mostra sul regista l’anno scorso al Louvre, a Parigi, che ha visto un grande afflusso di visitatori per due mesi. Rossellini è sempre stato apprezzato più in Francia che in Italia, tanto che i giovani registi della “nouvelle vague”, come Truffaut, Rivette e Godard lo consideravano il loro “padre spirituale”. Truffaut lavorò con lui per due anni, Rivette in un suo articolo lo definì” il genio del cristianesimo”. Dalla Francia è stato poi riscoperto dai giovani cineasti italiani, come Bertolucci e Bellocchio. “Per i giovani – e noi siamo qui, alla Nuct, l’università del cinema, dove c’è una borsa di studio per il miglior regista intitolata a lui – la sua lezione è grandissima, se si pensa che uno Scorsese non perde occasione di dire che il suo cinema deriva da Rossellini. “Ma la sua lezione nel senso più compiuto credo sia questa: in ogni regista che voglia esprimere pensiero, esercitare conoscenza e non mercificazione, ragionare sui valori, lì dentro c’è Rossellini; ogni volta che un regista giovane o meno fa qualcosa in questa direzione, Rossellini è dietro la porta. “Oggi, gli studenti, restano sconvolti dalla modernità del suo cinema, non c’è il diaframma del bianco-enero, tanto è forte il suo messaggio. Del resto, definire Rossellini solo un regista sarebbe riduttivo, perché lui ha portato nel cinema la moralità del pensiero rinascimentale. Ha voluto, Rossellini, in definitiva entrare nel profondo dello spirito umano”. CHAT ROOM ROBERTO ROSSELLINI È il titolo di un piccolo ma prezioso testo curato da Renzo Rossellini e Osvaldo Contenti (pp.158, Sossella editore). Un’appassionata lettura del paesaggio mentale e artistico del pioniere del neo-realismo e dell’ispiratore della nouvelle vague. Ma è anche un ritratto per certi versi sconosciuto dell’uomo e un’analisi dettagliata della sua filmogragfia, con saggi di Lizzani, Marcella De Marchis Rossellini, Silvia d’Amico e V. Giacci. Si inserisce nelle recenti manifestazioni del Venticinquesimo, comprendenti pure alcuni filmati: “La Roma di Rossellini” (a cura di p.Fantuzzi, edito da Nuct-Raisat), “Rossellini per la tv” (curato dal figlio Renzo e dal nipote Alessandro), e il “ritratto filmato” di Carlo Lizzani.

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