Romeo e Giulietta

Il regista Pippo Di Marca è tra gli alfieri di un periodo storico dell’avanguardia teatrale, al quale sembra essersi ancorato mantenendo una sua visionarietà di linguaggio. Purtroppo mette sempre troppa carne al fuoco nei suoi spettacoli. Anche nell’ultimo: Romeo e Giulietta di Shakespeare, dal sottotitolo Complessi bandistici della nobile Verona. Col voler destrutturare la storia dei due giovani amanti, egli vi introduce due band di musicisti e, costringendo ad una recitazione sempre sopratono, ottiene il risultato di uno spettacolo caotico e inutilmente chiassoso. Specie nella prima parte. Avendo cancellato i due protagonisti (evocati o fatti vivere come fantocci), a introdurre le vicende sono tre corifee, simili alle streghe di Macbeth, che giungono con due corde legate a un grande catafalco – carro di Tespi, muro, schermo o tomba -. Si inizia con la proiezione dell’esplosione del fungo atomico, e di due fanciulli che interpretano i poetici versi degli innamorati. Saranno sempre loro a dire, in chiusura, le uniche parole d’amore di tutto lo spettacolo. Come se il sentimento di felicità fosse ne- gato agli adulti, impegnati invece in lotte di faide che generano scontri e guerre. Ed è questo il senso della messinscena: la follia di una piccola storia d’amore che sembra voler contenere l’insensatezza del male della grande storia. Le ultime immagini proiettate ripetono lo schianto delle Twin Towers e scoppi di artiglierie, mentre dei militari raccolgono sacchi di immondizia contenenti i fantocci di Romeo e di Giulietta: le vittime dell’infinita catena di morti fino ad oggi. La guerra di parole e di rumori si placa nelle ultime sequenze, con l’intensa scena in cui, schierati, avanzando a turno dentro un rettangolo luminoso, alcuni dei personaggi provano sgomento per le loro azioni e sembrano ritrovare umanità. Qui Di Marca riesce a sintetizzare gli eventi, e lascia un segno teatrale meno irritante. Danza: Sussurri nell’aria Grande chiusura al festival Equilibrio curato da Giorgio Barberio Corsetti, con il giapponese Saburo Teshigawara e della sua Compagnia Karas, in una prima mondiale: Scream and whisper. Danzatore, coreografo, scenografo, scultore, Teshigawara è indagatore di opposti – luce e ombra, staticità e dinamismo – e artefice di un metodo che ha nella tecnica del respiro, sia fisico che mentale, l’elemento creativo. Nel nuovo lavoro il grido e il sussurro sono gli elementi ispiratori di una coreografia di insolita bellezza espressiva: pura danza, priva di barriere concettuali e formali, perché essa è una costruzione d’aria sul palcoscenico. Così la definisce Teshigawara. E la si comprende subito dall’assolo iniziale e dal successivo ipnotico ondeggiare da fermo dei sei danzatori che tagliano l’aria con leggerezza; fluttuano liquidi con le braccia e le gambe; per esplodere con movimenti veloci e spezzati. Sembra, poi, graffiare l’aria il respiro di una coppia al cui suono danzano soltanto sfiorandosi. Si sussurrano parole con una gestualità fluida e avvolgente di tutto il corpo, creando un dialogo che li avvicina e li allontana. Le impalpabili parole sembrano volare e scolpirsi nell’aria. Infine rientrare dentro la loro anima, motore di un flusso di emozioni inarrestabili racchiusi dentro vibranti fasci di luce

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