Ritratti d’autore

Il guaio della nostra epoca è il tracollo morale, o quello mentale? Riscoprire la "verità di Bellezza" con Mario Dal Bello.
Ritratti d'autore

Anche i ragazzi di oggi sono bellezza, perché sono il fiore dell’umanità. Ma è triste vedere quanto poco si sappiano belli (la vanità non è bellezza) e quanto, dunque, la bellezza gli manchi. Per questo ne hanno bisogno. Ma poiché quella della natura non è così facile accostarla per chi ha gli occhi semichiusi, potrebbero-dovrebbero ricorrere alla grande intermediaria tra natura e storia: l’Arte.

È (anche) questo che muove Mario Dal Bello, redattore della nostra rivista, a pubblicare Ritratti d’autorefigure della pittura europea da Duccio a Rothko (Città Nuova 2009), riuscito libro di 120 pagine e 32 riproduzioni a colori (molto fedeli) di opere dei 32 grandissimi pittori analizzati con brevità essenziale e stimolante («con familiarità e garbo estremi» afferma in prefazione il famoso critico Claudio Strinati).

Senza la bellezza andiamo tutti, specie i giovani, a ramengo e a fondo, perché né il bene né la verità possono risplendere privi di essa; e dunque si vive davvero malamente la Storia senza Natura e Arte. È la “Realtà-di-Bellezza”, la “verità di Bellezza”, dice e ribadisce Dal Bello, che ci manca e ci chiama, perché solo il bene del bello, e viceversa, tob in ebraico, kalo-kagathia in greco, bonus-bonulus-benulus-benlus-bellus in latino, ha da dirci e da darci il senso stesso del vivere.

Come parlare di questo libro? Raccontarlo è impossibile, come lo sarebbe suonare colori e dipingere parole; e allora provo, con la tecnica del flash di citazioni, a incuriosire e motivare il lettore: avvertendolo che il “tempo” delle parole di questo libro, e ancor più le immagini che lo corredano, per definizione non deve essere quello dell’usa-e-getta.

 

Guardiamo perciò, invece di imbarbarirci negli orrori davvero indicibili del Grande fratello (spreco di immagini in pseudo-realtà), la realtà di immagini della bellezza; anche se, dice l’autore, «ogni parola di fronte all’Arte diventa scarsa e appare inconcludente», e conta solo, al vivo dell’opera, «l’esperienza di un modo “diverso” di guardare il mondo e la vita».

Ecco Duccio «che sembra viaggiare attraverso visioni» che «ricordano il Paradiso di Dante».

Ecco “l’arte della sintesi” del narratore psicologo Giotto, che prefigura «la centralità rinascimentale sull’uomo».

Ecco l’“intensità” di Masaccio, «forza primigenia (…) capace di creare la storia».

Piero della Francesca «sa che la luce fa esistere le cose» e perciò «guarda dritto davanti a sé e così vuole che noi lo guardiamo».

«Tra il reale, l’ambiguo e il mistero» Leonardo «vuole il tutto, anzi incontrare quell’Uno in cui ogni realtà è compresa».

Nella «meditazione alta e inesorabile sulla vita umana» di Grünewald l’immagine, accentuata psicologicamente e spiritualmente, tende ad «essere ormai “astratta”».

Alla “solitudine gigantesca” di Michelangelo fa controcanto l’“apparizione” in Pontormo della vita sospesa fino al “pianto trattenuto”.

Caravaggio scopre “il vangelo del quotidiano” nell’«incrocio ineluttabile tra vita personale e storia sacra e profana».

Turner con i suoi “vapori di luce” sembra distruggere il colore: che invece Monet traduce in «pensieri, forme spirituali del movimento che agita il cosmo».

Non voglio continuare (potrei) ad avanzare questi tocchi fini e penetranti dell’autore, perché a me sta il dare l’assaggio, al lettore nutrirsi.

 

E allora, ritorniamo a chiederci perché una cosa bella è bella. Perché una persona, un corpo, sono belli? Perché anche la vecchiaia può essere recepita come bellezza (vedi Michelangelo, Rembrandt ecc.)? Dalla bellezza dell’Arte viene un potente rimando alla bellezza della natura, e della vita umana, anche nel dolore (è la lezione universale di Van Gogh, e persino di Francis Bacon), viene il mistero luminoso del bello-nel-brutto; e perciò l’innegabile verità del primato della bellezza sul male stesso: della bellezza-povertà, della bellezza-dolore, della bellezza-perdita; che contesta la crassa volgarità e insensatezza del piacere-consumo, del successo-denaro, della dissipazione delle cose che diventa scialo di sé stessi – mentre l’Arte custodisce per sempre (A thing of beauty is a joy for ever, John Keats).

Aveva ragionissimo Chesterton: il fenomeno più negativo della nostra epoca non è il tracollo morale, è il tracollo mentale.

Nel 1830 Giacomo Leopardi, rivolgendosi miticamente alla Luna nel Canto notturno, scriveva genialmente i due versi più strazianti della poesia moderna sulla morte, anzi, peggio, sulla perdita del senso della bellezza: «Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore/ rida la primavera». Ritorniamo al bello; se non vogliamo diventare ancor più tragicamente quei “mostri incomprensibili” di cui parlava già 400 anni fa Blaise Pascal.

Auguro perciò a tutti, ma specialmente ai giovani, di non mancare di leggere-guardare questo libro (il cui prezzo, 10 euro, è tenuto basso dalla collaborazione del Centro europeo Risorse umane).

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