Ritorno alle retate

Presentato un ricorso alla Corte Europea dei diritti umani contro l’azione del Governo italiano che lo scorso agosto ha effettuato un rimpatrio collettivo di cittadini sudanesi

Il termine rastrellamenti, si sa, evoca qualcosa di terribile per tutti. Nei Paesi dove vige la democrazia indica per lo più qualcosa del passato oppure di geograficamente lontano. Fino a quando non ci si sveglia un giorno con una brutta notizia: questi rastrellamenti avvengono oggi e qui, a casa nostra.

Mentre infatti tanti italiani si trovavano in vacanza, o ne erano appena rientrati, lo scorso 24 agosto si scriveva a Ventimiglia una triste pagina nella storia dei diritti umani: circa 60 cittadini sudanesi, approdati nel nostro Paese e diretti altrove, sono stati arrestati e costretti a tornare a Khartoum.

Solo alcuni di loro, che sono strenuamente riusciti ad opporsi, hanno chiesto e ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato politico. Per gli altri non c’è stato niente da fare: sono rientrati in patria, hanno ricevuto un divieto di espatrio per cinque anni e vivono nascosti nei dintorni della capitale. Diversi di loro scappavano dal Darfur dove di certo non possono tornare. Fra i rimpatriati, cinque hanno presentato ricorso alla Corte Europea dei diritti umani per chiedere l’accertamento dell’illegittimità del Governo italiano ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo.

È quanto portato all’attenzione pubblica dal Tavolo nazionale asilo, un coordinamento di diverse organizzazioni che operano nel campo dei diritti umani fra cui Amnesty International, Arci, Asgi, Caritas, Centro Astalli, Federazione delle Chiese Evangeliche.

L’operazione di rimpatrio collettivo si era svolta nel quadro di un “Memorandum d’intesa” stipulato il 3 agosto 2016 a Roma fra la polizia italiana e quella sudanese, alla presenza di funzionari del Ministero dell’Interno e del Ministero degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale. Una sorta di accordo per rafforzare, come si legge nel preambolo, la cooperazione nella lotta contro la criminalità organizzata, il traffico di migranti e l’immigrazione irregolare, il traffico di droga, il terrorismo, la tratta di esseri umani.

Un accordo che non è stato reso pubblico e che inoltre, come segnala l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione «non è stato sottoposto ad alcun vaglio parlamentare come imporrebbe l’art 80 della Costituzione italiana» per la materia che tratta (vedi commento dell’Asgi).

C’è anche un altro punto controverso su questo accordo, come spiega l’avvocato Salvatore Fachile, che lo scorso dicembre si è recato in Sudan per incontrare i cittadini che avevano avviato il ricorso. «Ci risulta che il Governo metta a disposizione competenze militari in cambio della collaborazione di un Paese che mette in campo un sistema di persecuzione dei suoi cittadini. E, anche se queste persone non avessero chiesto protezione, cosa su cui nutriamo forti dubbi, l’accordo è contrario al divieto di rimpatriare persone nei Paesi in cui esiste un pericolo di persecuzione o tortura. Si è trattato, poi, chiaramente di un caso di espulsione collettiva, per cui siamo stati già in passato condannati dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo».

Insomma il rischio di addestrare forze di polizia che usino tecnologie e competenze per altri fini, insieme a quello di “espulsioni” per nazionalità (qualcuno parlava di una prossima “retata” per persone di nazionalità nigeriana), preoccupa non poco.

 

 

 

 

 

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