Ristrutturazione e rinnovamento

La vita religiosa è partita leggera sullo slancio del carisma: poche e povere strutture. Ma ora in molti casi si trova appesantita dal calo di idealismo e dal carico delle strutture. Non è difficile immaginare che cosa direbbe e farebbe Francesco d’Assisi di fronte a certi conventi francescani o i fondatori di scuole per i poveri al vedere collegi enormi gestiti dai loro figli dove può aver accesso solo la gioventù ricca. Il problema nel nostro tempo non si pone però solo dal punto di vista della fedeltà alle origini, che ovviamente rimane l’aspetto fondamentale, ma di come gli ordini, le congregazioni e gli istituti religiosi sono chiamati ad affrontare il sovraccarico di strutture che non riescono più a sostenere per la diminuzione delle vocazioni col conseguente assottigliamento e invecchiamento dei membri.

 

È uno dei problemi che maggiormente preoccupa le famiglie religiose di una certa età, che durante il corso della storia si sono dotate di strutture, a volte necessarie per esprimere la vitalità del carisma, a volte invece superflue, frutto di donazioni o di proiezioni poco ponderate sul futuro . Basti pensare agli enormi seminari costruiti nel post-Concilio e ora tristemente vuoti. Vari sono già stati venduti e trasformati in alberghi, case di cura, addirittura in caserme. Sono diversi gli aspetti di questa problematica e noi non ci riteniamo specialisti all’altezza di darne una soluzione sotto il profilo tecnico. D’altra parte, nessuno ha la ricetta in tasca e sono in corso tentativi vari più o meno riusciti. Quello che vogliamo tentare in questo numero di Unità e Carismi è dare un’illuminazione attraverso riflessioni ed esperienze che si ispirano al carisma dell’unità. Luci di carattere generale, che possono essere applicate in situazione diverse e dare origine a soluzioni differenti.

 

Questa problematica ricade spesso sotto la definizione di “crisi”: crisi della vita religiosa, di vocazioni, dei carismi, crisi strutturale, economica…. È vera crisi? Che tipo di crisi è? È solo negativa? “Crisi” è una parola alla moda e le mode sono pericolose, perché non aiutano a cogliere la realtà nella sua profondità e complessità, portano a generalizzare, a intruppare. Ci si riempie la bocca, ma si rischia di essere ciechi e sordi. Il primo che deve essere ascoltato è lo Spirito Santo, come hanno fatto i fondatori e le fondatrici, che hanno saputo cogliere la sua voce attraverso le circostanze e le “crisi” del loro tempo: gioventù abbandonata, malati, schiavi, clero e vita cristiana in decadenza… Per loro le “crisi” sono state “parola di Dio “ nello Spirito, sfide alla fede e alla carità. Non oggetto di piagnistei, ma spinta all’azione.

 

Come i religiosi e le religiose affrontano le loro crisi, in particolare quella delle strutture? Sono oggetto di lamento senza speranza o motivo per riaccendere la creatività dell’intelligenza, del cuore e dello spirito? Noi crediamo che la “crisi” delle strutture è un invito dello Spirito all’essenzialità e alla povertà, alla purificazione dei carismi dalle incrostazioni storiche che ne hanno offuscato la trasparenza. Facciamoci una domanda: storicamente fu più negativo per la vita religiosa l’incameramento dei beni da parte dei governi liberal-massonici dell’Ottocento o lo stretto legame fra Chiesa e Corona dell’epoca coloniale con tanti benefici materiali e privilegi?

 

Il grande pensatore Antonio Rosmini esprimeva in modo figurato ed efficace il suo pensiero: “Quando la Chiesa è ricca delle spoglie d’Egitto come di altrettanti trofei, quando pare divenuta l’arbitra delle sorti umane, allora solo ella è come impotente: ella è il Davide oppresso sotto l’armatura di Saul, quello è il tempo del suo decadimento (testo adattato parzialmente al linguaggio moderno, n.d.r.). Sarebbe bene, prima di affrontare il problema tecnico della ristrutturazione, andare a rileggere cosa pensavano (e come si comportavano di conseguenza) i fondatori e le fondatrici sulla povertà e la vita comune. Se Gesù parlava di mettere vino nuovo in otri nuovi, questa lettura permetterebbe di mettere vino “rinnovato” in otri “rinnovati”, per non continuare a ripetere lo sbaglio di preoccuparsi delle strutture, trascurando lo spirito (il carisma).

 

Alla povertà abbiamo già accennato. Riflettere sulla vita comune è estremamente importante, perché le strutture sono anzitutto a servizio delle comunità, come luogo di accoglienza e espressione di vita. Certi conventi assomigliano a musei di cattivo gusto, accogliendo disordinatamente l’eredità delle generazioni che vi sono passate e lasciando un piccolo spazio per la sopravvivenza di alcuni esseri umani. È la comunità che fa la casa e non la casa la comunità. Ristrutturare vuol dire trasformare le case in luoghi accoglienti, per chi vi abita e per chi suona il campanello per entrare: per chi vi abita, perché vive reciprocamente questa accoglienza nella carità; per chi chiede di entrare, perché trova una porta aperta, persone a sua disposizione, calore. Non ci ammonisce Gesù a non essere sale scipito e luce nascosta, e perciò inutili?

 

Ma vita comune può significare anche allargare i propri confini. Una struttura che non serve più a una congregazione non può essere forse utile a un’altra, magari a una nuova fondazione, piena di entusiasmo, ma col conto in banca al limite del rosso? O non si possono unire due famiglie religiose, che da sole arrancano con fatica e senza futuro? Il Pime è frutto dell’unione di due istituti missionari, uno di Milano e l’altro di Roma, fatta da Pio XI nel 1926. Allora la cosa avvenne per autorità del papa, adesso potrebbe essere conseguenza della comunione. O ancora, una o più congregazioni potrebbero mettere in comune le loro strutture formative, finanziarie… come già sta avvenendo. La “crisi” può rivelarsi veramente una occasione preziosa per il rinnovamento della vita religiosa, come le notti dei mistici sono la premessa dell’illuminazione. L’importante è avere gli occhi di Dio.

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