Rischio periferia in Italia?

La paura è che quello francese diventi un esempio. Per questo negli altri stati europei – in quel nucleo di paesi ricchi che costituisce la meta dell’immigrazione – ci si interroga, si fanno confronti, si azzardano previsioni. Si cerca, soprattutto, di capire. Da una parte, certamente, è mancata l’integrazione: nelle periferie della grandi città francesi, abitate prevalentemente da persone di origine africana che hanno sostituito i francesi nei grand ensemble popolari, permangono differenze visibili, anche se l’immigrazione è arrivata alla seconda o terza generazione. Differenze sociali ed economiche che non vengono più organizzate e rappresentate dai grandi partiti popolari che nel dopoguerra si incaricarono di interpretare le differenze vissute dai francesi. Eppure, le rivolte testimonierebbero d’altra parte che i giovani rivoltosi hanno profondamente interiorizzato alcuni dei valori-guida della società francese, e si ribellano proprio per contestare una marginalizzazione che li priva della libertà e dell’uguaglianza, con tutte le implicazioni di sicurezza economica e opportunità di realizzazione personale cui sentono di avere diritto. Certo, la loro rivolta si esprime, appunto, nei termini immediati e violenti della rivolta; per questo, anche vedendo che i danneggiamenti e le devastazioni colpivano pure quei beni pubblici che venivano fruiti proprio dalle famiglie dei rivoltosi (attrezzature di parchi, scuole, ecc.) c’è chi ha visto la presenza di un elemento nichilista nelle notti dei fuochi: un altro aspetto dell’integrazione di questi giovani, che portano alla luce una violenza e una assenza di significato latenti nella nostra società. Eppure, non si può dire che tutto questo sia rimasto privo di effetti politici, se è riuscito a modificare la linea del governo di destra, costringendolo a ripristinare politiche sociali che aveva abbandonato, e a prendere atto che le manganellate, nonostante il parere del ministro dell’interno francese, non sono sufficienti a risolvere i problemi. La rivolta francese, insomma, ha aspetti specifici d’oltralpe, ma ha messo anche in evidenza crepe e problemi comuni agli altri paesi europei. Dopo che gli attentati di Londra avevano avuto come protagonisti, fra gli attentatori, immigrati di seconda e terza generazione, dimostrando le difficoltà del modello di integrazione inglese, divengono espliciti i limiti di quello francese. E si cerca un modo per costruire società dove siano salvaguardati i diritti democratici di tutti, ma anche la distinzione delle diverse identità e tradizioni. Quale strada sta prendendo l’Italia? Quali sono le caratteristiche della sua immigrazione, sia nelle risorse che nei problemi? Ne parliamo con Franco Pittau, che ha coordinato il XV Rapporto sull’immigrazione di Caritas/Migrantes, pubblicato dal Centro Studi e Ricerche Idos. Dott. Pittau, allo scoppio delle rivolte giovanili in Francia, qui da noi qualcuno si è chiesto se qualche cosa di simile potrebbe accadere anche in Italia. Che cosa ne pensa? Queste comparazioni sono un po’ forzate. Pensiamo prima di tutto che c’è una notevole lontananza a livello urbanistico: le periferie parigine sono molto più grandi delle nostre e profondamente diverse. Gli enti locali, in Italia, hanno avuto una maggiore agibilità delle periferie. Ancora, in Italia constatiamo un grande impegno del volontariato e del terzo settore nei confronti degli immigrati. Infine, grandi organizzazioni quali la chiesa, i sindacati, hanno visto di buon occhio l’immigrazione e questo ha influito sia sulla popolazione sia sugli immigrati. Intende dire che in Italia possiamo stare tranquilli? Niente affatto. Dico che la nostra situazione è diversa. Il problema non riguarda questo o quello dei nostri territori, che hanno connotazioni profondamente diverse dall’area parigina, ma la nostra immigrazione in generale. Il vero problema, in Italia, è dato dal rischio che l’intera immigrazione, per una quota consistente di popolazione – anche di politici e di intellettuali – diventi una periferia: ed è un problema molto più grave di quello che si sta vivendo a Parigi. Questo rischio esiste: lo testimonia la stessa innovazione legislativa introdotta in Italia, che è stata fatta nel segno della precarietà; cioè si è pensato che gli immigrati sono persone da ammettere quando ci servono, e poi li si fa ritornare a casa; questo è un concetto che ha ispirato molto l’attuale legge Bossi-Fini. Legge che lei ha avuto modo di definire come arroccata: per quale motivo? Dobbiamo renderci conto che l’immigrazione è una dimensione strutturale della società, non è solo questione dell’emarginato e della periferia. Ma se è strutturale dovremmo facilitare il radicamento, cosa che attualmente non viene fatta: il rinnovo del permesso di soggiorno è diventato un incubo. Il mercato del lavoro è sempre più flessibile, il lavoro che un immigrato può acquisire più facilmente dura pochi mesi e poi se ne deve trovare un altro: è raro che un immigrato abbia un contratto a tempo indeterminato; ma allora, il permesso di soggiorno deve tenere conto di questa situazione. Vent’anni di storia ci hanno dimostrato che legare il permesso di soggiorno alla chiamata nominativa è una vera e propria fabbrica di irregolarità. Abbiamo bisogno del lavoro degli immigrati e, dunque, bisogna dare loro la possibilità – un tempo ragionevole – di trovarlo, di passare da un lavoro all’altro. Quali politiche di inclusioni dovremmo mettere in atto? Dobbiamo dare un contenuto al loro essere cittadini; non sarà una cittadinanza perfetta, ma la loro partecipazione alla vita del luogo in cui vivono si deve poter esprimere. L’argomento del voto agli immigrati, che pure era stato proposto, non è stato affrontato perché, si è detto, non era previsto dall’agenda politica; ma partecipare, per gli immigrati, è importante, è proprio ciò che impedisce di diventare periferia. Intanto, in Italia esistono delle reti che facilitano l’inclusione, come lei accennava in apertura: qual è il loro ruolo? Sono molto importanti. La legge Bossi-Fini, negli articoli dedicati all’integrazione degli immigrati, parla di mediazione interculturale ed esprime la volontà di sostenerla. Oltre alle legge, in Italia abbiamo un tessuto sociale che ha recepito l’idea della mediazione culturale ed abbiamo avuto una grande fioritura di iniziative. Qual è il compito del mediatore culturale? Cerca di creare un ponte tra due realtà differenti, all’interno di norme comuni di convivenza quali sono, anzitutto, le norme costituzionali e, poi, le leggi ordinarie. Tra le culture ci sono delle diversità che non solo possono convivere, ma sono anche in grado di stimolarsi a vicenda, di sviluppare la fantasia, di arricchire gli stili di vita, di interpretare la stessa norma attraverso una comprensione, una sintesi più alta. Faccio qualche piccolo esempio. Pensiamo alle possibilità di incontro offerte dalla musica: certamente noi abbiamo la nostra tradizione, ma sta crescendo anche l’interesse per i ritmi africani; pensiamo alla famiglia allargata nella quale spesso gli immigrati vivono: ci ricorda – e ci fa riflettere su – una condizione che anche per noi era normale fino a non molto tempo fa e che poi è stata scardinata dallo sviluppo industriale; pensiamo ai diversi modi di fare ginnastica che ci sono offerti dalle varie culture: non è detto che dobbiamo farla soltanto con i pesi. Certamente la convivenza di culture e religioni diverse può creare dei problemi; ma la vita sociale è fatta di problemi. Si tratta di imparare a conoscerci meglio, a rispettarci, ad aiutarci; diventeremo così i testimoni di una convivenza possibile anche a livello più ampio, senza che si debba più arrivare a farsi la guerra. IN ITALIA, PER RESTARCI Diamo un’occhiata ai dati che dimostrano come l’Italia, sempre più, sia un paese di approdo e non solo di transito. Dal Dossier statistico 2005 sull’immigrazione di Caritas/Migrantes. Quanti sono e che cosa fanno Gli immigrati in Italia sono circa 2 milioni e 800: quasi il 5 per cento della popolazione; le nascite nelle famiglie di immigrati costituiscono invece quasi il 10 per cento delle nascite totali. Gli immigrati in Italia sono oltre un decimo di tutti quelli presenti nei paesi europei. Soltanto 316 mila, però, sono riusciti ad acquisire la cittadinanza italiana. La tendenza dei flussi di ingresso dei lavoratori stranieri e dei loro famigliari si attesta attorno alle 300 mila unità all’anno; nei prossimi dieci anni, dunque, il numero degli immigrati dovrebbe raddoppiare. Questa è la presenza regolare: quanti sono gli irregolari? Si può farsene un’idea tenendo presente che il 40 per cento degli immigrati che si rivolgono alla Caritas non ha il permesso di soggiorno. I 2 milioni 160 mila lavoratori stranieri costituiscono il 9 per cento della forza lavoro totale; 439.883 sono iscritti ai sindacati. La grande maggioranza svolge lavori part-time e a tempo determinato. Nel 2004, il 47,5 per cento degli assunti lavorava nei servizi, il 39,5 per cento nell’industria, il 13,0 per cento nell’agricoltura. Casa Nel 2004 una casa su otto è stata acquistata da cittadini extracomunitari, per una spesa di circa 10 miliardi di euro; in maggioranza si tratta di alloggi di livello medio-basso, da ristrutturare, nelle periferie delle maggiori città. È interessante notare che il 70 per cento degli immigrati ricorre ad un mutuo, ed è dunque in grado di offrire garanzie alle banche; i mutui ipotecari erogati ad immigrati sono cresciuti del 66 per cento tra il 2001 e il 2004. Scuola Nell’anno scolastico 2004-2005 gli studenti di origine straniera nelle scuole italiane erano 361.576, pari al 4,2 per cento della popolazione scolastica; non molti, si dirà, ma il loro numero cresce al ritmo del 20 per cento all’anno. Provengono da 187 diversi paesi, ma i ragazzi di Albania (16,7 per cento), Marocco (14,4), Romania (11,5), Cina (5,2) ed ex-Jugoslavia (3,5) costituiscono da soli oltre la metà della popolazione studentesca straniera.

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