Risate sotto canestro

Risate e canestri, allegria pura, contagiosa follia ludica. Quando la sirena chiude lo spettacolo, per gli Harlem Globetrotters è il tripudio: una folla variopinta di bambini e bambine, di papà e di mamme, di anziani curiosi e di addetti ai lavori, di sportivi appassionati e di adulti profani tributa loro un’ovazione scrosciante. Questa stessa scena festosa si ripete ormai da quasi 80 anni ogni volta che i funamboli del palleggio dalla pelle nera vanno in scena sui parquet del mondo intero. Hanno collezionato qualcosa come 25 mila partite, di cui 23 mila vinte, in oltre 120 paesi, hanno giocato davanti a capi di stato ed a pontefici come Pio XII, hanno portato le loro performance sulle strade e sulle piazze di tutto il mondo, così come in stadi prestigiosi quali quello Olimpico di Berlino davanti a 75 mila persone. Questo ed altro ancora sono gli Harlem Globetrotters, forse la più celebre squadra di basket di tutti tempi, un manipolo di guizzanti colossi di colore nati dalla fantasia di un omino polacco nel lontano 1927. Abe Saperstein, questo il suo nome, non era né uno scopritore di talenti sportivi né un manager: era un sarto, alto appena 160 centimetri, emigrato nella caotica Chicago. Amava trascorrere le serate al Savoy Ballroom, un locale dove si esibivano ballerini e musicisti e dove lui, innamorato del tip tap frenetico che veniva danzato sulle piste del locale notturno, immaginò come sarebbe stato divertente far giocare su quelle assi un gruppo di virtuosi del basket, il suo sport preferito. Non ci volle molto a convincere un gruppetto di ragazzi di colore ad esibirsi con un pallone: il padrone del locale, diffidente, li sfidò a riempire la sala nei giorni di chiusura, ma in poche settimane il locale era stracolmo di gente accorsa a vedere quelli che presero il nome di Savoy Five, il quintetto del Savoy. Quando il direttore decise di chiudere la sala da ballo per far posto ad una pista da pattinaggio su ghiaccio, il quartiere meridionale di Chicago era già diventato troppo stretto per la fama dei palleggiatori di colore. Così il piccolo Abe decise di fare il grande salto: lo capì anche il padre quando lo vide entrare nella sua bottega con una manciata di stelle d’oro da cucire sulla decina di canottiere blu che reggeva sottobraccio insieme a quei buffissimi pantaloncini larghi a righe rosse e bianche. Si misero al lavoro e ritagliarono dalla stoffa anche le lettere che avrebbero formato il nome della nuova squadra: Harlem Globetrotters. Anche se nessuno dei giocatori di allora era nato a New York, Saperstein, con il nome Harlem voleva far capire immediata-mente alla gente che la squadra era formato solo ed esclusivamente da giocatori neri. Ed anche se nessuno di loro era ancora mai uscito dai confini di Chicago, col termine Globetrotters il geniale Abe fece intendere che avrebbero giocato ovunque e contro chiunque. L’esordio avvenne il 7 gennaio ’27 a Hincley, Illinois: incasso 75 dollari. Il piccolo Abe, unico bianco della compagnia, faceva da autista, allenatore, dirigente. All’intraprendente ormai ex-sarto polacco, in un periodo in cui ai giocatori di colore era precluso l’accesso alle squadre professionistiche, non occorse molto per reclutare un po’ ovunque nelle sue fila ottimi talenti neri, cominciando ad inanellare strepitosi successi in partite vere che, in breve tempo, fecero degli Harlem la squadra più temuta degli Stati Uniti. Nessuno voleva più giocare contro di loro e così, per evitare di restar senza lavoro, Saperstein tornò al primo amore: lo spettacolo puro, non basket giocato, ma recitato, non più agonismo, ma canestri, schiacciate, balletti, gags, numeri spettacolari col solo scopo di divertire un pubblico il più numeroso possibile. Nacquero in quel momento gli Harlem, così come sono giunti ai giorni nostri, così come li abbiamo visti riempire in queste settimane i palazzotti del nord Italia. Sempre accolti sul parquet dalle note di Sweet Georgia Brown sono stati i più straordinari messaggeri del basket nella sua forma più immediata e spettacolare per milioni di persone nei cinque continenti. Per poter soddisfare le innumerevoli richieste diesibizioni, Saperstein dovette formare addirittura diversi gruppi che si esibivano contemporaneamente sul pianeta. I suoi eredi vendettero la squadra per 3 milioni di dollari, un bel salto da quei primi 75 dollari. Oggi si allenano ad Orlando, in Florida al Walt Dysney World, ma nelle loro peregrinazioni si allenano ogni giorno in mezzo alla gente nelle città dove arrivano, coinvolgendo bambini ed adulti, così come hanno fatto in un pomeriggio di fine giugno dentro la Galleria di Milano. Tra le fila degli Harlem si sono esibiti campioni dello spessore di Reece Goose Tatum, Fred O’Neal, l’indimenticabile Georg Meadowlark Lemon che incantava tutti con i suo tiri in gancio da metà campo. Ma anche la leggenda Wilt Chamberlain, l’uomo dei 100 punti in una partita dell’Nba, il campionato professionistico americano, e, ultimo, Joe Blair, il pivot dell’attuale Armani Jeans, la squadra di Milano. Tanti nomi famosi, tanti straordinari talenti naturali, sportivi ed umani, capaci di divertire e divertirsi, di portare a milioni di persone due ore di sorrisi e risate, tanto di essere divenuti ambasciatori dell’Unesco. Una serata in compagnia degli Harlem è indimenticabile per chiunque, a testimonianza che si può ancora ridere e scherzare con cose semplici.

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