Ripartiamo dalla sconfitta

“Mettiamo allegria nei nostri palloni!” ha proposto un giorno Serse Cosmi, tecnico del Perugia. Un semplice slogan, un invito a relativizzare l’errore, a non prendere troppo sul serio vittorie e sconfitte, a non esaltare scriteriatamente il fenomeno sportivo? Una proposta meno ingenua di quanto può sembrare a prima vista. Lo sport, espressione positiva e valvola di sfogo della nostra società, rischia di non reggere le pressioni e le esasperazioni sociali che vi conferiscono. Anche perchè, forse, ha occupato spazi ed assunto ruoli che non gli competono. Manuel Vasquez Montalban, scrittore spagnolo e grande tifoso del Barcellona, ha detto in un’intervista: “In un’epoca in cui è evidente la crisi delle ideologie, in cui è chiaro il ridimensionamento della militanza politica, e dove persino gli atteggiamenti religiosi soffrono di mancanza di prospettive, il calcio è la sola, grande religione praticabile. C’è in questo sport un aspetto finanziario, mediatico, pubblicitario, ma non sottovaluterei il suo lato liturgico”. Lo stesso De Coubertin lo sperava: “La prima caratteristica dello spirito olimpico antico, come di quello moderno – scrisse – è quella di essere una religione “. Il calendario della Formula Uno o dei Mondiali di calcio sembrano aver polverizzato tutti gli altri. Ma c’è chi si spinge ancora oltre: secondo il filosofo francese Redeker, oggi lo sport sviluppa in massimo grado i due parametri più odiosi del sistema capitalista: la ricerca senza scrupoli del massimo profitto e l’ideologia fondata sul principio del super- uomo, della forza e della violenza. La sua invadente ed universale onnipresenza, egli afferma, è capace di colmare il vuoto normativo dei nostri giorni, con una “ideologia pansportiva”, dove lo sport è simulacro del contenuto dell’era del vuoto: “Siamo tutti sotto trasfusione sportiva permanente. Illusione di civiltà, lo sport è illusione di umanità”. Le sfumature del saper perdere Espressioni forti, forse non condivise da tutti, soprattutto da chi lo sport lo pratica, lo ama, lo ritiene occasione importante di confronto con se stessi e con gli altri, di dialogo e di amicizia, di educazione e di allenamento alle difficoltà della vita. Come il numeroso gruppo internazionale di sportivi ed operatori dello sport, ispirati alla spiritualità dei Focolari, accomunati da una nuova sigla, “Sportmeet for a united world”, “incontro con lo sport per un mondo unito”, che si sono dati appuntamento, poche settimane fa, a Loppiano, sulle colline di Toscana, per fare sport e dialogare su questi temi. Curioso e accattivante il primo interrogativo che si sono posti: da una cultura della sconfitta può nascere una nuova cultura della vittoria? Il confronto di idee e di esperienze di vita sul tema è stato suscitato dall’intervento di Paolo Crepaz, coordinatore di Sportmeet, giornalista e medico dello sport, responsabile sanitario della nazionale italiana di canoa. “In un tempo in cui la ragione cerca di spiegare ogni cosa e sembra più difficile saper cogliere i fini ultimi dell’uomo – ha spiegato – lo sport riaccende il gusto del fare, anche fisico, dell’esprimere desideri e passioni intime, di affrontare la routine e l’incertezza del quotidiano, di esorcizzare la paura della sconfitta in un ambiente protetto”. Potenzialità che rischiano di venire soffocate se lo sport viene caricato di valenze esagerate: il doping, la violenza negli stadi, le scommesse clandestine, la incontrollata contaminazione sport-spettacolo lo testimoniano. “Si impone un recupero di una dimensione equilibrata della competitività – ha continuato -, in cui sconfitta e vittoria, siano vissute entrambe serenamente, proprio perché nello sport esse si alternano così facilmente”. Ecco il perché di un tema provocante: una cultura della sconfitta. “Non certo riducendo banalmente questo concetto alla rassegnazione dignitosa di fronte ad un risultato avverso, ma piuttosto saper perdere, per saper vincere”. Che significa allora saper perdere? “Ci sono mille sfumature – ha concluso -: apprezzare il valore del vincitore, la bellezza e l’efficacia del suo gesto; riconoscere i meriti dello sconfitto, la sua tenacia e la sua virtù; salvaguardare il diritto di sbagliare, specie per i più giovani, tornando, concretamente, ad investire sui vivai; variare la dieta sportiva, uscendo dal monoalimento calcistico per conoscere ed apprezzare altri sport; praticare in prima persona uno sport o almeno assistervi in diretta, anziché in tv, per capirne l’impegno e la fatica richiesti; capire ed esercitare l’arte del passaggio della palla, anziché tenerla per sé, negli sport di squadra; fidarsi, in parete, del compagno di cordata; rinunciare ad un’impresa in mare o in montagna di fronte alle condizioni avverse e scoprire vette più interiori; fino a riconoscere, accettare, persino amare il proprio limite fisico”. Quando i campioni raccontano le sconfitte Provocatorie proposte sulle quali però gli sportivi presenti hanno saputo offrire testimonianze concrete e credibili: un evento inusuale sentire campioni dello sport raccontare momenti difficili anziché successi conseguiti. Gianni Rivera, indimenticato campione con la maglia azzurra e con quella del Milan, ha ricordato il suo esordio in seria A a 16 anni, la gioia di quei momenti, ben presto trasformatasi in lacrime per le parole di un dirigente che voleva incolparlo della sconfitta; ha ricordato gli scudetti persi col Milan all’ultima giornata, la sconfitta con la Corea in maglia azzurra, da cui uscì con una nuova, straordinaria determinazione. “Chi fa sport – ha commentato – mette la sconfitta come ultima possibilità: ma se si impara a saper ricostruire sulla base degli insuccessi, non solo arrivano le vittorie, ma si vive un’esperienza importante per la propria persona”. Una sfumatura diversa l’ha offerta Marco Marchei, ex-maratoneta azzurro, due olimpiadi all’attivo, Mosca e Los Angeles, ed alcuni episodi brucianti di sconfitta sulle spalle, come la maratona dei Giochi del Mediterraneo persa per un errore di percorso. Oggi è direttore di Correre e de Il nuovo calcio, riviste sportive di ottimo valore tecnico: “Il giornalismo sportivo è diventato o solo cronaca, o solo occasione per alimentare polemiche, per far crescere, ad esempio, la cultura del sospetto verso gli arbitri. Mi auguro si possa andare verso un giornalismo diverso, di inchiesta, di approfondimento, che aiuti le persone, i giovani soprattutto, a riscoprire i valori dello sport. Troppe trasmissioni si occupano di chiacchiere da bar, rubando spazio a sport di valore, ingiustamente dimenticati”. Come ad esempio l’orienteering, la passione di Nicolò Corradini, unico atleta non scandinavo capace di vincere, e per quattro volte, il titolo mondiale invernale. “Ho vissuto un momento difficilissimo all’inizio della mia carriera, con la morte improvvisa del mio allenatore. Non fu una sconfitta sportiva, ma fu durissimo ritrovarmi adulto da un giorno all’altro, programmare da solo il mio allenamento. Occorre fare tesoro di questa cultura della sconfitta: da oggi me la porterò ancora di più nel cuore per trasmetterla anche ai ragazzi che alleno”. SPORT PER UN MONDO UNITO Accanto ai campioni, hanno portato la loro testimonianza sportivi di ogni livello e di diverse parti del mondo. Grazie a Sportmeet, è venuto alla luce un fermento ed un dialogo col mondo dello sport nelle sue diverse espressioni: di divertimento, di contatto con la natura, senza dimenticare la sua dimensione agonistica e professionistica. Giovanni di Siena, giovane calciatore, ha conquistato la cronaca sportiva dei quotidiani: “Solo perché ho ammesso all’arbitro di aver toccato io la palla per ultimo, facendo così invertire un rinvio dal fondo in un corner a favore degli avversari “. Daniele, altoatesino, ha disputato l’Ironman alle Hawai, la regina delle gare di triathlon: “In uno sport massacrante come il nostro, in cui nuoti, pedali, corri per otto, nove ore di seguito, piccoli gesti, dividere una borraccia con un compagno in un rifornimento, o offrire la propria scia in bici, cambiano le situazioni “. Sabine, dell’Austria, è insegnante di educazione fisica: “Cerco di trasmettere ai giovani cui insegno il mio amore per lo sport che ho tanto amato: aver rinunciato alla pallavolo alle soglie della nazionale, per impegnarmi nel volontariato, mi da oggi carica e profondità”. Carlos, uruguaiano, fisico possente, frequenta il controverso mondo della pesistica: “Ho frequentato palestre ad Istanbul, a Gerusalemme, a Baghdad, ora a Firenze, ma ovunque ho scoperto che basta amare gli altri per superare barriere di razza, di religione e di cultura. Aiutare i compagni a fare bene un esercizio, dividere una bibita, ascoltare gli altri, mi ha permesso, ad esempio, di sostituire, a Gerusalemme, d’accordo con i compagni, la classica scritta:”rimettete i pesi al loro posto” con “fate agli altri ciò che vorreste fosse fatto a voi”. Ed oggi di promuovere l’impegno a non fare uso di anabolizzanti”. Due significative esperienze del Sud America hanno contribuito a comprendere anche la forte valenza sociale dello sport. Mario Stavrou, e sua moglie Laura, argentini, docenti ai corsi superiori per insegnanti di educazione fisica, da otto anni promuovono a Buenos Aires, “Deportchicos”, una sorta di Olimpiade per ragazzi delle aree più disagiate della città. Mille ragazzi si cimentano in una dozzina di discipline sportive: gareggiando imparano a conoscersi, a rispettarsi, a condividere le gioie e le fatiche. “In loro – ha spiegato Stavrou – cresce la sensibilità sociale, la condivisione, la cultura del dare: a Deportchicos, non solo si raccolgono anche fondi e beni di prima necessità per i più poveri, ma i tornei sono organizzati in modo che anche i perdenti non siano eliminati, quando un atleta si fa male lo si aspetta, ci si complimenta tutti con chi vince e si consola chi perde. Ed a mezzogiorno, come per incanto, ogni gara si ferma, qualunque sia l’azione, per il time- out, un minuto di silenzio o di preghiera per la pace, per sintonizzarsi con chi sta soffrendo”. Chico Sebok, ha vent’anni e studia Scienze Motorie. Dedica, con altri giovani, il proprio tempo libero ai ragazzi di una favela, una baraccopoli, che sorge proprio di fronte a loro, alla periferia di San Paolo: “Abbiamo offerto diverse attività ai ragazzi – ha raccontato -, ma tutti hanno scelto lo sport. Si aspettavano di giocare a calcio: non vi dico le facce quando abbiamo proposto loro di giocare a pallamano, spiegando che questo metteva tutti sullo stesso piano e non creava, almeno lì, altre discriminazioni “.Attraverso lo sport sono entrati a contatto con difficili situazioni di droga e di disagio sociale. Con tutto il suo slancio giovanile ha concluso dicendo: “Volevo fare l’avvocato, ma ho capito che prima o poi qualcuno mi avrebbe fermato: con lo sport mi fermeranno quando sarà troppo tardi!”. Olympia LA COMPETIZIONE, LA VITTORIA, LA SCONFITTA Al workshop si è tenuto conto che competizione, vittoria e sconfitta vanno inquadrate in una riflessione più ampia che riguarda la realtà sociale di oggi nel suo complesso. “Nella società contemporanea si è molto alzato il livello della competizione e dell’aggressività – ha spiegato Vera Araujo, sociologa brasiliana -: esse, gestite, governate, controllate dalla ragione e indirizzate ad un obbiettivo, possono svolgere, e di fatto svolgono, un ruolo di emulazione, di superamento di limiti, come è il caso dello sport, di sana concorrenza, al fine di ottenere un risultato migliore, contribuendo alla crescita, al progresso, allo sviluppo, al rinnovamento, addirittura al miglioramento, della società”.A patto che l’emulazione, la competizione, la sfida convivano con la concordia. E la sconfitta? “È importante chiedersi – ha concluso – se sia solo un momento, inevitabile, di passaggio, da dimenticare subito, o piuttosto, serva da pedana di lancio per nuovi successi e nuove vittorie. La sconfitta ha un valore in sé? Scavando si potrebbe trovare addirittura una cultura della sconfitta?”. “La sinergia fra economia e sport è oggi evidente – ha invece spiegato l’economista Luigino Bruni -: entrambe dovrebbero aiutarci a vivere meglio, entrambe riconoscono il valore della concorrenza per migliorare l’efficienza, entrambe si svolgono in pubblico, una situazione che favorisce la crescita della dimensione relazionale, ma che alimenta la logica dell’apparire; e così via”. Quale contributo possono offrire al mondo dello sport le centinaia di imprese che si ispirano all’economia di comunione, proposta dal movimento, e che vivono la “cultura del dare” pur rimanendo sul mercato, sfidando la concorrenza? “Esse sperimentano che il successo si misura anche in termini di beni relazionali, di qualità dei rapporti, dentro e fuori l’impresa; che c’è un bilancio sociale che va aldilà di quello economico, e che garantisce loro un futuro. Così nello sport, come nelle imprese, sono in molti a ritenere che sia necessario conservare una certa dose di gratuità, affinché chi lo pratica ne tragga soddisfazione e felicità, che non corrispondono necessariamente solo ai successi”.

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