Rinascimento a due voci

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Chi entra, nel duomo di Siena, nella Libreria Piccolomini o a Spello, nella Cappella Bella a Santa Maria Maggiore, si sente trasportato in un altro mondo. Una natura incontaminata di cieli azzurri, orizzonti sconfinati; personaggi dai volti sereni e dai costumi sgargianti che vivono la storia con una levità che non conosce la colpa né il dolore. È il mondo di Bernardo di Betto, detto Pintoricchio – Pintorichius, si firmava lui – che in queste opere del primo decennio del Cinquecento raggiunge una invidiabile armonia fra illustrazione storica, capacità di impaginazione grandiosa, equilibrio di forme e di colori freschi. Così le storie del papa Pio II a Siena diventano una fiction in costume dell’avventura di Enea Silvio Piccolomini, letterato politico e pontefice: un uomo che si è fatto da solo, grazie al suo ingegno, come è nell’ideale rinascimentale. Pintoricchio ne glorifica le gesta dentro un mondo fiabesco e reale al contempo, fra calibrate decorazioni classicheggianti. La storia del papa diventa così modello per la vicenda di qualsiasi uomo. Ma non c’è adulazione nell’arte di Bernardo, solo illustrazione dei fatti, in un clima di idealità bella e gioiosa, leggera. È infatti la leggerezza la sua migliore qualità. A Spello le storie della Vergine si svolgono sotto un cielo primaverile, fra architetture armoniose dove una folla di personaggi contemporanei, come d’uso, assiste e commenta i fatti sacri. Di fronte a questi affreschi si avverte una folata d’aria fresca. C’è una finezza nelle scene, nei sentimenti, una dolcezza nei colori che non è grazia superficiale, nemmeno la ricercata soavità del conterraneo Perugino. Pintoricchio, che si è ritratto nell’Annunciazione in un quadro appeso alla parete, ha lo sguardo acuto di chi osserva, senza giudicare o imporre. È uomo libero. Con una scioltezza narrativa da cui imparerà molto l’allievo Raffaello. Forse per questo, negli anni 1492-94 papa Borgia l’aveva chiamato in Vaticano a decorargli l’Appartamento privato. Bernardo, che a Roma già aveva affrescato all’Aracoeli e in Santa Maria del Popolo con la sua vivace bottega, ora inventava un mondo di splendore quasi barocco, come piaceva al papa, in cui l’esaltazione del pontefice come custode della fede, si accompagnava ad un repertorio di citazioni classiche di chiara bellezza simbolica. Colori ricchi, forme rilevate a stucco, spazi sereni si susseguivano uno dopo l’altro come una sacra rappresentazione, su cui giganteggiava Alessandro VI in preghiera, dal profilo arcuato e volitivo: immagine di potere e di ambizione. Ma Bernardo si era volutamente fermato all’esterno del carattere del papa, ritrattista di corte rispettoso, anche se perspicace. Era stata la stagione migliore del pittore, quanto a celebrità. In quegli anni aveva firmato il Polittico di Santa Maria dei Fossi (1496), forse il suo capolavoro.Un’opera intima, in cui il raccoglimento veniva espresso da una poesia priva di pietismi. È la religiosità del rinascimento di quegli anni: mai eccessiva, sempre ordinata. La Vergine sta su di un trono di marmi e bronzi col Bambino, sullo sfondo di una natura ridente. Volti e gesti vivono in una luce trasparente che rende nuovi i sentimenti. Pintoricchio qui non racconta, presenta una scena familiare in un’atmosfera di resurrezione che non conosce ormai la morte o la sofferenza. È il suo mondo. Lo conserva intatto sino alla fine, nei lavori improntati ad un senso di pulizia formale che è prima di tutto chiarezza dell’anima. Quando muore, sessantenne, nel 1513, lascia ai maestri del suo tempo – Raffaello per primo – questa eredità. Stupenda e difficile. Lui c’è riuscito, con leggerezza. Sebastiano, un dramma contenuto Donne floride sotto un tramonto infocato e guerrieri ombrosi. Pietà romantiche e Flagellazioni desolate. Umanisti imponenti e papi esitanti. E, alla fine, una costellazione di Lamenti e di Deposizioni. Dal primo decennio del secolo al 1547, quando scompare, è questo il cammino di Sebastiano Luciani, detto del Piombo. E del suo tempo. Perciò egli è artista ancora da scoprire: intelligente, forse distante. Ma affascinante. Nel 1512 quando dipinge la cosiddetta Dorotea (Berlino, Gemaldegalerie) è ancora il giovane veneziano amante del canto e della musica, come il maestro Giorgione, con una ragazza affacciata davanti al tramonto. Un colore sensuale ed una solidità plastica rendono l’immagine possente: una Gioconda che trattiene la sua dirompente vitalità. Questa contenutezza del sentimento, che rende le immagini dentro e fuori del tempo, è già la cifra di Sebastiano. Lo si avverte meglio nella Pietà di Viterbo (1516): due figure stanno immobili nella notte, la Vergine in torsione verso il cielo lunare, il Cristo bronzeo disteso nel sonno d’attesa della resurrezione. Intorno una natura romantica di forre, brillii dell’alba, acque, crea un sottofondo cromatico luminescente alle due sculture dipinte. Innestando il colore veneto sulla forza classica michelangiolesca, Sebastiano dà vita ad una meditazione alta sulla morte, fermando il dolore nello sguardo speranzoso della Vergine, dando respiro al corpo del Cristo. Nasce una polifonia di forme e di sentimenti che è di pienezza rinascimentale, cioè di un visione dell’uomo nobile e sicura: forte. Senza incertezze. C’è ancora questa visione nei ritratti di quegli anni, come l’Anton Francesco degli Albizzi (1525, Houston, Museum of Fine Arts) che si squaderna nello spazio in posa oratoria: imponente nell’accordo dei grigi e dei rosa dei vestiti; o nel Clemente VII del 1526 (Napoli, Capodimonte) seduto di tre quarti, il volto altero tra lo splendore dei rossi e dei bianchi delle vesti, con un tratto sdegnoso nella bocca. Immagini di potenti, fiere. Eppure, Sebastiano comincia ad avvertirne la fragilità, come quella del papa, nascosta sotto il portamento aristocratico. È infatti dell’anno seguente, il 1527, lo choc del Sacco di Roma che segna la fine del Rinascimento libero e dorato, anche per gli artisti. Il veneziano sicuro, grandioso, si fa riflessivo. Una religiosità inquieta gira nell’aria, piena di pathos. Egli la raccoglie e inizia ad esprimerla nei suoi dipinti. Ora le forme si cristallizzano, i colori tendono all’astrazione, anche se il fuoco veneziano non si nasconde. Il Cristo portacroce del Prado (Madrid), ritrae un dolore cocente e muto. Realizzato con tecnica finissima, con la luce che vibra sulla croce e sulla veste azzurra con una dissonanza cromatica moderna, vede il volto guardare fuori scena per attirare compassione, ma non disperazione. Sebastiano compone un pathos misurato, solenne. Così nella Pietà di Ubeda – che influenzerà la pittura spagnola controriformista – la Madre mostra chiodi e sudario ai fedeli, mentre il Figlio dal corpo morbido giace riverso. È dramma, ma senza sangue. C’è una compostezza meditativa che lega le figure in un circolo amoroso, come se l’interiorità volesse parlare attraverso le forme e i colori. Il disegno è sicuro, l’impaginazione chiara. Perciò questo dipinto, che emerge dal fondo scuro, come un chiarore, parla, dolorosamente, di vita. Come l’incompiuta Natività della Vergine a Roma (Santa Maria del Popolo), corale di figure ancora forti che affondano ed emergono dal buio, sotto lo sguardo di un Dio michelangiolesco. Luce e oscurità. Come era, in quel momento, l’anima di Sebastiano e del suo tempo.

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