Rigoletto all’Opera

In scena l'ultima rappresentazione della stagione con orchestra diretta dal maestro Renato Palumbo
Rigoletto all'Opera di Roma

E' l’ultima rappresentazione della stagione e l’Opera di Roma, nonostante la difficile situazione, ce l’ha fatta a portarla in scena. Diciamo subito che l’orchestra, diretta con foga, talora persino eccessiva, da un maestro di vaglia come Renato Palumbo,  non è scesa di livello, anche se non c’era Riccardo Muti. E che il coro era musicale, intonato, bello da sentire. A riprova che i professionisti veri ci sono e ci sanno fare: han voluto mostrare al pubblico – purtroppo non foltissimo – che il teatro può vivere e produrre cose belle.

Molto interessante l’allestimento con le scene intercambiabili, un gran proscenio ignudo con tendaggi semoventi a sintetizzare e quasi ridurre nell’arco di 24 ore  il racconto di Federica Parolini. A questo si aggiungono i costumi ottocenteschi di Silvia Aymonimo, poi la regia misurata e per nulla invasiva, con alcuni tocchi guizzanti, i cortigiani “caricati” in particolare  di Leo Muscaro. Nessuna eccentricità, solo un commento moderno al dramma verdiano: che è grande, vasto, tremendo. 

La direzione di Palumbo ha sottolineato l’aspetto tragico della vicenda del gobbo buffone e dell’innocente Gilda sedotta e abbandonata dal Duca di Mantova, con squarci  di vere esplosioni come fossimo nel Don Giovanni mozartiano ( e in un certo senso lo siamo), “rallentando” intelligentemente nel preludio dell’ultimo atto che evoca nebbie mantovane ambigue, ritmi vorticosi nella canzone della “donna  è mobile” e attacchi fiammeggianti dei violini e dei legni (sempre memorabile i l clarinetto di Calogero Palermo). Il cast è stato in qualche momento “coperto” dal suono orchestrale, ma si è difeso bene, anche se le voci non hanno troppo volume. Corretto il Rigoletto di Giovanni Meoni, brava specie nei duetti e nei virtuosismi la Gilda di  Ekaterina Sadovnikova (piccola voce, però), pimpante il Duca di Piero Pretti (se cura la bella voce, sarà un gran bene perché ha tante doti), bravi  tutti gli altri.

L’aggressività e le lacrime verdiane – il tempo vorticoso del “Congiurati vil razza dannata” era una vera tempesta, come i singhiozzi dei violini nel duetto Gilda-Rigoletto atto secondo – sono ancora una volta diventate parole e sentimenti autentici e universali.

Bello spettacolo, in un teatro  in cui alcuni, giustamente aspettano una parola di vicinanza da parte di Muti per l’orchestra e  il coro…

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