In ricordo di Dino: “Il suo ‘focolare’ una tavola per tutti”

Lo scorso 25 luglio è mancato Dino Impagliazzo, lo "chef dei poveri", così verrà per sempre ricordato. La testimonianza di due suoi amici, Riccardo Bosi e Paula Luengo
Dino Impagliazzo mentre cucinava per i poveri. Foto di Sara Fornaro
Dino Impagliazzo mentre cucinava per i poveri. Foto di Sara Fornaro

Ci vuole un soggetto comunitario per scrivere qualcosa su Dino Impagliazzo. Ed è per questo che Riccardo Bosi col contributo di Paula Luengo si sono avventurati insieme, già da qualche mese, a scrivere alcuni aneddoti della vita di questo uomo immenso, che ci ha lasciati lo scorso 25 luglio, all’età di 91 anni. Mentre questo libro-intervista vedrà la luce nelle prossime settimane (sarà il quarto “Passaparola” del 2021 pubblicato da Città Nuova), cerchiamo di farci guidare da questi due amici di Dino per raffigurare qualcosa di più intimo su questo uomo di mare e di frontiera, padre dei poveri, insignito dal Presidente della Repubblica Commendatore d’Italia e chiamato popolarmente “lo chef dei poveri”.

«A Dino sono legato da profondo affetto e immensa stima – rivela Riccardo –. Con lui ho potuto condividere avventure personali e profonde. Dino ci ha fatto conoscere Paula, cilena che ha vissuto per diversi anni a Roma, quando lei si era avventurata nella mensa della stazione Ostiense»

A destra, Dino Impagliazzo, lo “chef dei poveri”, con un amico che aiutava con l’associazione RomAmoR. Foto di Sara Fornaro

«Mentre la notizia della morte di Dino Impagliazzo raggiunge i confini della terra – racconta Paula – dal mio Cile, in pieno inverno australe, chiamo per primo Raffaele per dargli la notizia. Era uno degli amici di Roma che Dino amava di più, dopo averlo incontrato ad Ostiense quando ancora camminava curvo e con lo sguardo fisso a terra. “Andrò al funerale a nome tuo”, mi ha rassicurata Raffaele. Non sapete cosa ha significato questo gesto per me»

Paula, giovedì scorso, conoscendo la delicata situazione di salute di Dino e l’attuale impossibilità legale a causa della pandemia di entrare in Italia venendo dal Cile, ha capito che non avrebbe potuto accompagnarlo e star lui vicino nelle ultime ore, come intensamente avrebbe desiderato. «Così ho deciso di andare in suo onore al quartiere popolare di Yungay a Santiago del Cile dove abbiamo iniziato quest’anno una mensa per circa 120 persone senza tetto, molti dei quali migranti, colpiti ancora di piú dalla pandemia e dalle sue ingiustizie».

Come al solito, Paula si è messa al servizio delle persone più povere, che si occupano loro stesse della preparazione del cibo. «Quando portiamo le pentole piene e prepariamo la tavola, Isabel mi porge solennemente il mestolo e dice “oggi servi tu“. Non era ancora accaduto. Come può un tale gesto scuotermi così tanto? La mia mente è volata immediatamente a quel 7 dicembre 2013 quando Dino ha messo un mestolo nelle mie mani e con le stesse identiche parole “oggi servi tu” mi ha lanciato nell’avventura più bella della mia vita».

La sicurezza di Dino, la sua certezza, il suo guardarti dentro, la sua ostinazione, la sua inconfutabilità avevano colpito Paula. Dino cominciò ad accompagnare i suoi passi in un modo delicato e intenso allo stesso tempo. «Ricordo quel giorno come il giorno in cui ho visto la mia vita tutta di un colpo, il giorno che aspettavo da sempre, il giorno in cui non ho più dubitato del mio posto nel mondo (e ne avevo dubitato per decenni)».

Ma chi è quest’uomo che, a 91 anni, è riuscito a muovere e commuovere persone di ogni condizione, a farli sentire prediletti, figli unici, protagonisti, uguali, fratelli, amati? Chi è questo “chef dei poveri”, questo “Commendatore d’Italia”, questo “fondatore di RomAmor”, questo “nonno, padre, sposo amatissimo”?

Paula e Riccardo sanno che non saranno certo queste poche righe a configurare la portata di questo marinaio sardo dal cuore immenso. Anime come quella di Dino difficilmente riescono ad abitare bene le parole. Ma certamente, per  chloro che hanno avuto la fortuna di incontrare Dino, queste ore si sono riempite di ricordi ardenti, momenti chiari, gesti limpidi. E poche parole.

In quegli anni, i flussi migratori avevano incrementato i “letti a cielo aperto” delle stazioni ferroviarie come ricoveri improvvisati per coloro che nessuno voleva vedere, dietro i monumenti e i musei della Roma della grande bellezza. Dino invece aveva occhi per vedere, e aveva deciso di interrompere il suo cammino per guardare gli emarginati ancora meglio. Li considerava degni del suo tempo e, testardo com’era, era determinato a dare loro non solo “briciole”.

Perché Dino è così difficile da classificare, da definire, da mettere in parole? Forse perché lui stesso era infastidito dai discorsi. Dino ha agito e parlato con le sue pentole, con le sue mani, con le sue consegne quotidiane. Pur con l’orizzonte carico d’ideali altissimi, Dino credeva che fosse la qualità della pasta che offriva ai senza tetto a renderli tangibili, reali. Infatti, molte volte ci siamo chiesti perché Dino era così insistente sul “pasto caldo”? Perché doveva essere “caldo”?

Dino aveva abbracciato con zelo la spiritualità di Chiara Lubich in gioventù, deciso a portare il sogno “Che tutti siano uno” fino alle sue ultime conseguenze. Ma l’origine di tanta utopia Dino l’aveva trovata nell’esperienza del “focolare” dei fratelli seduti alla stessa tavola. Perché come amava ripetere Chiara Lubich riferendosi al primo focolare di Trento: «Sedevamo a tavola una focolarina e un povero, una focolarina e un povero… ». Forse per questo le immagini che affollano la nostra memoria in queste ore sono piene di incontri e sguardi associati a un banchetto. Dino amava sedersi intorno a un tavolo, ma ancora di più amava che a quel tavolo si sedessero persone estreme, persone che non si sarebbero mai incontrate, mondi di esclusi e inclusi nella stessa condizione, uguali e fraternizzati dal suo pasto caldo. Sì, il “che siano tutti uno di Dino” ha avuto luogo intorno a un banchetto. La rete di volontari di RomAmor può testimoniarlo a lungo.

La vita di Dino Impagliazzo può essere letta come il rifiuto tenace di lasciare il Vangelo racchiuso in confini spirituali e religiosi, e il suo bisogno di vederlo umanizzato, laico, incarnato, popolare, accessibile a chiunque. Riccardo e Paula ci tengono a sottolineare che i frutti di Dino, che per molti oggi sono luce, dedizione e concretezza, non sono arrivati per generazione spontanea, né per maturazione naturale. Loro, che hanno potuto condividere da vicino il viaggio di Dino, sann che i frutti di oggi hanno raggiunto la sua maturazione attraverso il difficile labirinto della solitudine, dell’incomprensione, della mancanza di sostegno.

Paula ritorna alla sua Yungay, in Cile: «Dino non c’é piú, ma mi abita. Il mestolo, le pentole, i volti sono diversi, ma sono anche gli stessi della sua Ostiense. Come se la vita volesse dirmi crudamente che non c’è modo di onorare chi amiamo se non raccogliendone il testimone, afferrandolo forte perché non cada, e continuare a correre».

Paula e Riccardo -e tanti altri – hanno avuto la fortuna di essere nel suo cuore. La fortuna di poter raccontare la sua vita, che presto sarà data alle stampe. Per questo oggi lo vogliono ricordare come quel compagno, fratello, amico, padre, maestro, sentinella che nel mezzo della notte semplicemente si mette al tuo fianco, ti invita a mangiare un pasto caldo per prendere le forze per continuare il lungo viaggio fino all’alba.

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