Regista per vocazione

Chi la dura la vince. Potrebbe forse essere il motto di Fernando, 36 anni, due bambini ancora piccoli, un cammino in salita, ma determinato, verso la regia. Calabrese di Nicastro, molto sensibile e fantasioso sin dall’infanzia, “scopre” a quindici anni la lettura: “La mia è una famiglia semplice – racconta – ed io da ragazzo non avevo mai letto nulla di importante, finché non ho scoperto Dumas ed il suo Visconte di Bragelonne. Da allora, mi ha preso una furia di leggere, per cui ho divorato di tutto: una passione che non mi ha mai lasciato”. Fernando frequenta l’istituto per geometri perché il padre, uomo di talento, è diventato imprenditore edile: come unico maschio, è logico pensare che porterà avanti l’impresa familiare. “Nell’85 salii a Roma, mi iscrissi ad Economia, riuscii anche a contattare l’ambasciatore di Guinea per ottenere appalti all’impresa di mio padre, finché non successero due episodi: da una parte mio padre che, non so come mai, non accettò più la commessa. Dall’altra, la telefonata ad una mia amica che credevo in difficoltà e che invece mi sorprese: “Ho incontrato Dio e la mia vita si è trasformata””. Un colpo per Fernando che cerca invece di convincersi che Dio non esiste. “Mi è venuto spontaneo pregare e chiamare un amico dei Focolari, conosciuto anni prima, per rimettermi in contatto con lui. Ma all’appuntamento non mi sono presentato, e sono andato avanti con la solita vita, il Sole 24 ore in mano, gli occhiali scuri da top manager e la morte in cuore, perché mi sentivo molto solo, pur avendo successo nell’azienda paterna”. Qualche mese dopo però, Fernando incontra l’amico in autobus: accetta, per educazione, un foglio con una frase del vangelo: “Chi mette mano all’aratro e poi si volta indietro, non è degno di me”. Niente da fare, Fernando capisce che è per lui e si dice: “Adesso non scappo più”. Ma c’è dell’altro: istintivamente, si domanda il senso degli studi che va facendo, perché l’attrazione artistica, sentita fin da ragazzo, riemerge con forza. “Andai da mio padre per spiegargli che intendevo iscrivermi a lettere con indirizzo spettacolo: lui si infuriò. Tuttavia, mi iscrissi, davo gli esami rapidamente, frequentavo tutti i laboratori possibili (da Dario Fo a Peter Stein), ho imparato moltissimo sulla regia, la drammaturgia, l’arte dell’attore. Mio padre si è sciolto, ha capito che la mia strada era un’altra”. Fernando si iscrive a un concorso per una scuola di attori professionisti a Roma. Al provino porta un pezzo suo, scritto di getto all’alba: “La sentite anche voi questa voce? Sembra un canto di felicità””, un monologo poetico e intenso che gli frutta otto mesi di studio serio con un assistente di Jacques Lecoque. Si laurea, frequenta un altro corso con un maestro come Carlo Quartucci e partecipa ad una selezione di quattro persone su quattrocento candidati per una tournée col Macbeth. “Era il ’92. Capivo che si stava chiudendo una fase della vita, volevo verificare dentro di me cosa volessi realmente fare, anche cosa Dio volesse da me. Pensavo alla Calabria, da cui partivano tanti giovani talenti, impoverendola. Riflettei bene, mi confrontai con alcuni amici, e decisi: tornai a casa, incerto se lasciar stare l’arte e lavorare con mio padre. Egli, entusiasta, mi regalò subito una Golf turbo diesel, era una specie di resurrezione per lui il mio ritorno. Ma dopo alcune settimane, in una città di 70 mila abitanti che allora non aveva né un cinema né un teatro aperto, entrai in depressione. “Un giorno, mentre stavo scrivendo questo ad un caro amico, Daniele Vicari (futuro regista, ndr), mi sembrò di essere un nulla, come forse s’era sentito Cristo in croce. Accettai questa situazione, e mi trovai risollevato dentro, passato in un attimo dalla tristezza alla gioia. Il giorno dopo, una telefonata: “Sono Carlo Quartucci”. “E io babbo natale” risposi. “No, sono proprio Carlo, ti ho cercato dappertutto, sei stato scelto per una tournée con me per venti giorni””. Fernando capisce che stavolta la cosa si fa seria, ne parla col padre, non se la sente di andarsene di nuovo, ha preso con lui degli impegni precisi. E lui, che sempre ha visto il mondo dello spettacolo come un ricettacolo di “anime perdute”, è d’accordo, anzi gli dà la sua “benedizione”. “La tournée fu un’esperienza straordinaria in tutta Italia. Alla fine, tornai a casa con un’intenzione: restituire le chiavi di macchina a papà, e dedicarmi a progetti culturali”. Fernando è un vulcano: fa laboratori, spettacoli, impianta con sei amici con gli stessi suoi ideali di un’arte rinnovata una compagnia nazionale “Teatro- in-corso” che gira per l’Italia e un’altra tutta sua in Calabria. Due anni dopo, mentre sta “lavorando” a Bergamo, tramite un amico, si trova convocato alla Lux Vide di Bernabei per una possibilità di lavoro in un centro culturale. Lui sa ben poco di Bernabei, altrimenti – racconta – “non mi sarei mai permesso di esibire con l’incoscienza giovanile, il mio traning su un testo di Chiara Lubich L’attrattiva del tempo moderno come presentazione. Bernabei mi prese, dicendomi che non ero adatto a lavorare ad un centro studi, ma a far televisione collaborando con lui”. E Fernando collabora. Sei anni, in cui diventa story editor di progetti notevoli: Fatima, Padre Pio con Michele Placido, la serie in quattro puntate Gli amici di Gesù, Dio vede e provvede, Questa casa non è un albergo… Sono anni di crescita professionale e umana, di successo lavorativo: si sposa anche, nel ’99, con Maria Chiara. Ma “ad un certo punto, mi venne dentro un’angoscia, perché mi accorgevo che non avevo più il tempo per studiare, il bagaglio culturale accumulato si stava esaurendo, nel lavoro riflettevo troppo la mia emotività” Stavo diventando insofferente, volevo cambiare aria. Ne parlai con Maria Chiara: se tu riesci a mantenere un reddito per la famiglia, ti puoi anche licenziare, mi disse, comprendendo il mio stato d’animo. Mica facile: era un rischio economico ed anche di carriera. Per di più alla Lux non erano d’accordo, mi stimavano”. Eppure, accade ancora qualcosa di imprevisto: Fernando incontra un produttore a cui fa leggere un storia d’amore, un “corto” che ha girato, intitolato Ti porto dentro. “È una bella storia, se vuoi te la faccio girare “, dice. Fernando si getta nella nuova impresa. “Io ho fatto la regia, e a metà delle riprese, approfittando del clima di poesia sul set, come l’ha definito il truccatore di Antonioni che lavorava con noi, fermo tutti e dico, con dentro una felicità sconfinata: scusate se vi interrompo, ma ho capito che è questo che voglio fare nella vita, il regista”. Fernando ha capito. Fa il salto definitivo, si prende con la Lux un contratto di collaborazione esterna, lavorando al progetto Augustus, perché deve studiare, maturare, vivere. Scarica mobili per asili nido per quasi due anni, per aiutare in famiglia, ma studia anche filosofia. E oggi, a che punto stanno le cose? “Adesso che ho compreso, con la Lux ho ripreso il rapporto nella direzione che sento mia: lavoro come regista di backstage (il “dietro le quinte” per le promozioni dei film), ma ho potuto pure girare in Marocco una fiction in sei puntate (andrà in onda in ottobre, ndr) Indietro nel tempo che racconta di due bambini precipitati nell’antica Roma (il set è quello di Augustus). Fernando però ora tenta il salto di qualità con la regia per grande schermo di un film tratto dal romanzo di Noris De Rocco La donna senza nome, la storia della donna amata da sant’Agostino prima del battesimo. “L’ho letta casualmente e dopo venti pagine – racconta – l’ho sentita fatta apposta per me”. Ma perché fare il regista? “Mi piace raccontare storie – confessa – soprattutto, oltre a realizzare un’opera, trovo una grande gioia nel tirar fuori dagli artisti con cui lavoro il meglio di loro: è una gioia come quella di quando si vede risorgere una persona che aveva smarrito sé stessa. Poi tutte queste creatività si fondono in una sola, in cui sono distinte ma pure sono unite”. Riuscirà Fernando nel suo progetto? Comunque, assicura, “nonostante il mio immenso amore per l’arte, il centro della mia vera gioia sta da un’altra parte”.

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