Ray Charles : l’ultimo dei grandi

Se n’è andato in punta di piedi qualche giorno fa, circondato solo dai suoi amici più cari. A settembre avrebbe compiuto 74 anni. Con lui un altro pezzetto di storia della musica è tracimato dalle cronache alla leggenda, e noi siamo un po’ più soli, e il mondo un po’ più povero. Era cresciuto in una povera famiglia in Georgia, nel profondo Sud degli Stati Uniti, in anni ancora durissimi per la gente di colore. Quella stessa Georgia cui avrebbe dedicato una delle sue canzoni più belle, quella che più d’ogni altra gli avrebbe regalato agiatezza e popolarità planetaria. Ma il suo era stato un inizio tutto in salita, complicato dal ritrovarsi cieco in seguito a una rosolia mal curata, e poi orfano, a soli quindici anni. Di certo fu proprio la musica a salvargli la vita, a restituirgli quel che la vita stessa gli aveva tolto. A scuola imparò a suonare il pianoforte e a comporre col metodo braille, poi passò al clarinetto, e poi ancora al sax tenore, quindi di nuovo al pianoforte. Un talento eclettico il suo, capace di passare con naturalezza dal jazz al rhythm’n’blues, dal soul al country, dal gospel al pop sofisticato da night-club. Ma soprattutto c’era la voce: quel timbro inconfondibile, felino, sinuoso: capace di graffiare e di accarezzare come poche altre. Il successo era arrivato agli inizi dei Sessanta. Dopo un bel po’ di gavetta alla corte di gente del calibro di Louis Jordan e Nat King Cole. Con il contratto con la prestigiosa etichetta Atlantic, le sue canzoni cominciarono a girare in radio e i suoi dischi a vendere sul serio. Soprattutto i critici e i consumatori di black-music cominciarono a rendersi conto d’aver a che fare con qualcosa di più di un talentuoso giovanotto. The Genius, così cominciarono a chiamarlo tutti quanti. E questo appellativo se lo portò appresso fino alla fine, come quel sorriso un po’ sbilenco eppure dolcissimo che aveva sempre addosso. Arrivarono canzoni destinate a diventare classici, e non solo del suo repertorio. Oltre a Georgia on my mind, I’ve got a woman (il suo primo hit, del ’55), Baby let me hold your hand, What I’d said, The midnight hour, Melancholy baby, I can’t stop lovin’ you… giusto per pescarne qualcuna fra le centinaia. E poi tournée in tutto il mondo, valanghe di dischi (non tutti capolavori ovviamente, ma sempre di classe e gradevolissimi), una decina di Grammy Awards, qualche divagazione su celluluoide (indimenticabile il cameo in The Blues Brothers), l’accorata partecipazione a We are the world. Anche parecchi problemi con la droga (finì pure in galera, nel ’65). Non s’è praticamente mai fermato. Perché la musica era la sua vita: l’adorazione dei bianchi, l’affetto della sua gente, la stima dei colleghi, perfino i milioni di dollari erano per lui solo effetti collaterali. Un tipo riservato: pochissime interviste, niente gossip, privacy ben difesa. Ricordo d’averlo incontrato un paio d’anni fa, al Colosseo. Un grande evento televisivo per la pace voluto dall’organizzazione Global Forum. C’era Shimon Perez fianco a fianco con un alto dirigente palestinese, c’erano Veltroni e un sacco d’altri pezzi grossi e di grandi stelle internazionali. Ma il piatto forte, manco a dirlo, era proprio lui. Arrivò praticamente un attimo prima d’andare in onda, nel delirio tipico che intasa i dietro le quinte di una diretta eurovisiva. Calma, ragazzo – mi fa uno dei suoi, assistenti -, deve ancora cambiarsi. Ma ce la fa, non ti preoccupare. Lui ce la fa sempre. S’infilano in camerino. Aspetto fuori. Passano i minuti, e non accade nulla. Li sento parlottare come fossero in un salotto. Comincio a preoccuparmi sul serio. Tra l’altro il palco non è dietro l’angolo e il suo passo non è certo quello di un centometrista. Butto la testa dentro. Adesso vengo, mi fa sorridendo. Grondo sudore e adrenalina. Mancano tre minuti alla sua performance. Dal walkietalkie m’arrivano strilli e invocazioni disperate. Rientro, deciso a portarlo via a qualunque costo. The Genius è ancora in mutande, e sorride: Aspetteranno, nel caso. Non c’è problema . Oddio! Finalmente viene fuori, faccio strada fra i ruderi e i cunicoli, cerco d’accelerare il passo, ma ogni volta me lo perdo e devo tornare indietro. Quando arriviamo sotto il palco, la Carlucci lo sta già annunciando. Venga, che vi presento, mi fa il gigantesco manager. Ma co- me, adesso? Sì, adesso. Lo saluto un po’ impacciato, e lui m’abbraccia col suo solito sorriso candido e sbilenco: Hai visto, ragazzo, ce l’abbiamo fatta, no?. Grazie per il ragazzo, ma lo sa che m’ha fatto venire un mezzo infarto? Ridono anche quelli della band: È sempre così, tocca mettersi il cuore in pace: figurati che non sappiamo nemmeno cosa suoneremo stasera! . Il Genio m’allunga un buffetto e una smorfia: quella di chi si trova davanti uno che non ha ancora capito cos’è importante e cosa no. Poi va su, con grazia sublime snocciola un paio di classici dei suoi, ringrazia, e se ne va. I geni, bontà loro, son fatti così. Franz Coriasco

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