Quella normalità conquistata

Tonia era già mamma a sedici anni. La sua sembrava un’adozione fallita, ma ha vinto la tenacia di chi ha accolto lei coi due bambini.
Illustrazione di Valerio Spinelli

Mattino. Nostra figlia Tonia prepara i suoi bimbi: Fabiola, otto anni, Benito sei, e li accompagna a scuola. Poi va a lavorare. Tutto normale, ed io ripenso a quando una scena come questa mi appariva solo come un miracolo da chiedere alla Madonna: tirare fuori questa ragazza dalle sabbie mobili in cui si era cacciata… Ma andiamo con ordine.
Tonia, che ha compiuto l’estate scorsa ventiquattro anni, a sedici era già mamma: l’adolescenza, il primo amore, un passato difficile hanno giocato il loro ruolo. Sì, perché lei è una figlia adottiva, proveniente da una famiglia distrutta e arrivata da noi all’età di tredici anni dopo cinque d’istituto. Mi pare di risentirla esprimersi solo in dialetto napoletano.
Si iscrive alla prima media e dopo sei mesi è già considerata la più brava dell’istituto, tale è il desiderio di imparare e vivere una vita normale.
Ha due sorelle e un fratello, adottati da due altre famiglie, a Napoli e Avellino. Immediatamente mia moglie Cinzia ed io cerchiamo un contatto con loro per restituirle quanto è rimasto della famiglia d’origine. Soprattutto vogliamo proporle un amore non limitato al nostro ambito e alle esigenze di noi genitori.
Rapidamente fra le tre famiglie nasce un’amicizia che si trasforma in autentica fraternità. E tanti i momenti in cui un incontro “conciliare” delle stesse ci aiuterà a risolvere problemi e situazioni.
 
Per quasi tre anni tutto “fila” per il meglio: bravissima a scuola, Tonia si avvia al diploma di scuola media di primo grado. Ma alcuni mesi prima che termini l’anno scolastico un’insegnante mi avverte che sta presentando un brusco calo di rendimento scolastico.
Sappiamo che da qualche settimana frequenta un suo coetaneo; cerchiamo di informarci e scopriamo che lui appartiene a una famiglia che vive al limite della legalità.
Affrontiamo il discorso con lei senza risultato.
Le cose precipitano: da un suo diario scopriamo che è incinta. Ma soprattutto ci preoccupano il ragazzo con cui è in contatto e la sua famiglia.
Tonia scappa di casa e per circa tre mesi è irreperibile. La famiglia del ragazzo nega di avere sue notizie, i mesi passano.
Mettiamo in giro la voce che ci siamo rivolti a Chi l’ha visto? e da un momento all’altro riappare e viene presa in carico dai servizi sociali.
Il giudice dei minori la pone di fronte ad una scelta: o torna da noi, in attesa della nascita del bimbo che porta in grembo, o viene collocata in un istituto fino alla maggiore età. Lei, caparbiamente, opta per la seconda soluzione.
Inizia un periodo a fasi alterne: riusciamo spesso, andandola a trovare, a ritrovare con lei un rapporto che viene puntualmente azzerato dai suoi contatti con la famiglia del ragazzo, per la quale allontanarla da noi è divenuta una questione di onore.
Tra l’altro la convincono ad abbandonare gli studi che stava continuando a seguire in istituto.
Con il suo vissuto, Tonia ha scelto la strada più indolore per manifestare il suo disagio: generare vita. Avrebbe potuto imboccare strade più negative: la droga, la criminalità, la prostituzione, il suicidio… e invece ha scelto di generare la bimba che forse avrebbe voluto essere lei stessa.
 
Al compimento dei diciott’anni va a convivere col ragazzo; tra l’altro lascia l’istituto nuovamente incinta.
Non vuole contatti con noi: una scelta che dobbiamo rispettare anche per non crearle problemi con la nuova famiglia di cui fa parte.
Amici e parenti ci consigliano di dimenticarla, lo stesso giudice del Tribunale dei minori ci consiglia di annullare un’adozione evidentemente fallita. «Come mai non vi siete separati anche voi stessi?», ci chiede, nell’ottica che una adozione serve ad aggiustare un matrimonio.
Per quel che mi riguarda, ho sempre chiari due punti: se i tre anni trascorsi insieme a Tonia non sono stati acqua, lei se ne ricorderà prima o poi perché l’amore non si cancella.
E a chi mi dice che lei si farà viva solo per chiederci soldi, ricordo la parabola del figliuolo prodigo che torna dal padre perché ha fame. È il padre che col suo comportamento fa la differenza, perché quel figlio era perduto e si è ritrovato.
Naturalmente tutta questa vicenda non è trascorsa senza conseguenze su di noi: mia moglie ha vissuto un acuto momento di depressione e a me è scoppiato il diabete, forse a causa del dispiacere. E tuttavia ci siamo fatti forza assieme.
 
Una mattina, prima delle sette, squilla il telefono. Ancor prima di rispondere so che è Tonia che ci chiama. «Aiutatemi a venire fuori da questa situazione, mi sono chiesta dove farò crescere i miei figli».
Rapidamente le troviamo alloggio in un istituto religioso per proteggerla da eventuali ritorsioni e al contempo la iscriviamo in una scuola privata dove prendere un diploma.
È madre di due bimbi dolcissimi (Fabiola all’epoca  ha quattro anni mentre Benito ne ha due) che si affezionano subito a noi, anche se non mancano i tentativi da parte della famiglia del padre di metterceli contro.
Dopo un anno ancora d’istituto il Tribunale dei minori le dà il permesso di trasferirsi da noi con i figli. Inizia per tutti una convivenza non esente da tensioni ma basata sostanzialmente sulla fiducia reciproca.
Ora Tonia lavora e i bimbi vanno a scuola, come dicevo all’inizio. Solo il Signore sa quanto sia costata a tutti questa normalità.

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