Quel treno per Yuma

Cronaca semiseria di un viaggio verso Sud fatto come ai vecchi tempi: ossia senza aria condizionata...
treno

Chi non conosce il film Quel treno per Yuma, ambientato in Arizona nella seconda metà dell’800? Non sappiamo come si viaggiava all’epoca con la Southern Pacific Railroad: dalla scarna cronaca del tempo emergono solo sparatorie tra fuorilegge e sceriffi, oppure rapine con pistoleri col bavaglio. Forse molti di più sanno come si viaggia con Trenitalia.

 

Stazione Termini, pomeriggio di fine agosto. L’Intercity 707 Roma – Taranto mi porterà a Salerno, dove incontrerò figlia e nipotino per portarli qualche giorno insieme alla casa dei nonni. Prima sorpresa, abbastanza scontata visto il periodo e la destinazione: solo biglietti di 1 classe. Ma sì, crepi l’avarizia, nonostante l’epoca di vacche magre!

 

Saliti a bordo in attesa del fischio, lo sguardo che sa di fumetto con il punto interrogativo indica una forte perplessità: il caldo che fuori è bollente, all’interno sembra raddoppiare. Consolatoria giunge la voce del solito esperto: «Solitamente si avvia con la partenza del treno in quanto…». Un po’ per rispetto, un po’ per disperazione, diamo adito all’osservazione. Ma i primi tre minuti dalla partenza, neppure lasciata del tutto la stazione, segnano l’amara verità: il capotreno, tra un fazzoletto zuppo di sudore ed un attrezzo per regolare alcuni marchingegni, sentenzia più col movimento della testa che con le parole: «non funziona».

 

Ovviamente l’incriminato è l’impianto di aria condizionata. Cesare, non sappiamo se al caldo o in migliori temperature, ebbe a dire “il dado è tratto”: per noi, in parole povere, significa “siamo partiti”. Da lì a breve il treno trasforma in un “trenino” di veglione di capodanno con persone in fila indiana che migrano da uno scompartimento all’altro in cerca di un filo d’aria. Il colore sempre più paonazzo delle facce e l’agitarsi di ventagli, giornali ed ogni suppellettile atto allo scopo è un chiaro segno di una situazione poco piacevole. Mi rifugio, con una pattuglia di temerari, alla fine del treno, dove c’è un finestrino aperto: per quanto l’aria di scirocco non sia invitante, è pur sempre qualcosa che assomiglia ad una zattera di salvataggio. L’acqua per tutti è finita: chi una, chi due bottigliette scolate alla svelta. Puntuale appare l’omino con secchio pieno di ghiaccio, annunciante: «birre, birre ghiacciate…». Sono rimaste le ultime due, sparite come l’assalto alla diligenza. Tralascio il prezzo.

 

Alla fermata di Latina, tutti giù dal treno. C’è chi, esperto in scienze naturali, sentenzia che è meglio aria calda, ma ossigenata, che quella viziata del treno. Sta di fatto che alla ripartenza, dopo una buona mezz’ora, un centinaio di passeggeri getta la spugna (e mai nessun oggetto è più indovinato in quel frangente…) e resta a terra in cerca di nuovi treni. Riparto con vicino una signora anziana diretta a Taranto, sventolando il suo ventaglio merlettato con la velocità consentita alla sua forza, vera icona di un mistero di come sarebbe andata a finire.

 

Tornando nel “buco” a fine treno la resistenza personale comincia a vacillare. La prossima stazione è Formia, troppo lontana da Salerno, ma abbastanza distante da Roma. Comunque la decisione è presa: intendo continuare la mia missione di nonno, anche se in ritardo, piuttosto che finire bollito. Tra boccate d’aria a turno dal pertugio semi aperto e telefonate per capire il da farsi, l’annuncio di Formia con il bel golfo di Gaeta. Mi faccio largo tra rossori e sudori e scendo repentino.

 

Il fallimento della mia permanenza su quel treno per Yuma (di Far West si è di fatto trattato…) non mi avvilisce. Riprendo vigore con una bottigliata d’acqua al bar della stazione e aspetto il prossimo treno. Prima di salire mi sincero: funziona l’aria condizionata? Mai un sì è suonato più felice. Ma lasciando i panni del cronista che annota con la giusta dose di ironia un’avventura poco gradevole, rimangono aperte una serie di domande che da anni rimbalzano tra giornali, tv ed esperienza diretta di viaggiatori. Come può una delle sette potenze economiche del mondo ripercorrere ogni estate ed inverno, a temperature invertite, disagi che forse percentualmente saranno bassi, ma con impatto e vissuto molto rilevanti? Sovviene a chi programma e gestisce servizi pubblici o di pubblica rilevanza che chi ne usufruisce, magari pagando un biglietto, non è solo un cliente, ma anche una persona? Al di là delle consuete dichiarazioni su come «occorre capire, determinare cause e responsabilità e predisporre eventuali interventi», non serve mettersi nei panni di una signora probabilmente vicino agli 80 anni con un ventaglio merlettato – che ci auguriamo sia arrivata a Taranto in condizioni degne dopo circa 8 ore di viaggio – per augurarsi che veramente non avvenga più.

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