Quattrocento da riscoprire

Bentornata, dopo vent’anni, una mostra sul Quattrocento romano. Messo troppo in disparte dal Cinquecento di Bramante, Raffaello e Michelangelo e dal successivo Barocco, il secolo è invece una primavera dell’arte. Nella capitale, i papi, al ritorno da Avignone nel 1378 e soprattutto dopo il Concilio di Costanza del 1417, si dedicano con fervore a fare di essa il vero cuore del rinnovamento culturale cristiano, puntando a sottrarre la gloria a Firenze, centro d’irradiazione del Rinascimento. I migliori artisti della scuola fiorentina e umbra scendono così a Roma: Angelico, Piero, Perugino, Botticelli, Pintoricchio… persino Mantegna. Purtroppo, del loro lavoro molto è andato perduto: spariti gli affreschi di Gentile e Pisanello in San Giovanni al Laterano – cancellati dalla moda barocca -, distrutti Mantegna e Angelico a San Pietro, dispersi quelli di Melozzo ai Santi Apostoli, qualche brano di Piero a Santa Maria Maggiore… Certo è che questi maestri, una volta entrati direttamente a contatto con l’antico, a Roma, subiscono uno choc salutare: la loro produzione sembra ringiovanirsi, tendere al monumentale, al gusto per la storia in grande. L’Angelico, nella Cappella Niccolina in Vaticano, impagina su scenari di rovine romane le storie dei santi Stefano e Lorenzo, con ampiezza di gesti e proporzioni. La Cappella Sistina vede un Botticelli, un Ghirlandaio e un Perugino confrontarsi con templi classici, spazi ampi, costruzioni solenni. I pittori sentono di fare la storia, anche se ne mantengono una visione non forzata né retorica, ma equilibrata. Nella mostra, questo segno di equilibrio, di raffinatezza, si coglie nelle opere esposte. Il Polittico della neve, dipinto da Masolino per Santa Maria Maggiore (ora disperso in vari musei), risente ancora dell’aria tardogotica con la linea duretta, i colori innaturali, i profili segaligni, ma già l’atteggiamento del papa e della corte è solenne come un rilievo antico. Il conterraneo Pisanello addirittura pare innamorato dei sarcofagi classici, se ne disegna, con stile appuntito e grazioso, i corpi e le movenze, che poi riap- paiono – eleganti – nella sue tavole e nelle sue medaglie. Fra’ Filippo Lippi, dipinga una Annunciazione o una Madonna col bambino, sempre si dimostra attratto da figure corpose, volumi solidi, logge classicheggianti in bella prospettiva: ne esce un’arte fresca, accattivante. La stessa che si ritrova nelle tombe dei prelati o dei pontefici. Da quella vasta, autocelebrativa di Paolo II al sepolcro bronzeo di Sisto IV, dove il Pollaiolo scolpisce tra figure allegoriche sinuose il catafalco ricchissimo di un papare, grande nella cultura (ma non nella religione). Giovanni Dalmata è uno degli scultori più impegnati. Attinge dalla romanità un repertorio di immagini e di simboli con cui infiora i suoi bei monumenti celebrativi sparsi per le chiese romane: sotto un arco trionfale, colloca il sarcofago con la figura del defunto reclinata, contornata da angeli- putti e dal rilievo della Vergine col bambino, spesso derivato dalle creazioni, molto signorili, di Mino da Fiesole. Devozione e bellezza formano così un insieme di raffinata serenità, quella che l’arte quattrocentesca evoca nella capitale. Pittori come il Perugino o Piero della Francesca ne forniscono esempi che influenzano anche i maestri locali, come Antoniazzo Romano. Quest’ultimo, poi, presenta una doppia faccia: dipinge tavole di santi composti su fondo oro, ma poi, romano verace, affresca le storie di santa Francesca Romana, a Tor de’ Specchi, sul 1468. Un film, anzi una fiction, liberissima, dalle tinte vivaci, incurante delle belle prospettive: il pittore canta la Roma popolaresca dei rioni, i miracoli, con toni da favola, da cantastorie di fede ingenua. Un ciclo da riscoprire, una vena anticlassica che riemergerà solo con Caravaggio. Certo, Antoniazzo è altra cosa da Filippino Lippi che, sul 1493, a fine secolo, decora la Cappella Carafa a Santa Maria sopra Minerva. Artista irrequieto e sensibile, estremizza il linearismo di Botticelli affidandosi a simboli, oggetti, decorazioni classiche che poi stravolge. Basti osservare l’Annunciazione: sembra un sospiro dell’anima nella sua leggerezza. Filippino, fantasioso ma ordinato, ripartisce gli spazi, inscena profeti e sibille, aprendo la via a Michelangelo. Ma non è ciclopico. Il Quattrocento sa essere misurato. Dai dipinti di un Perugino o di un Filippino infatti arriva ancora l’aria fresca della primavera, come qualcosa di sorgivo. Che fa bene rivedere o scoprire.

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