Dopo quattro anni di processo, giovedì 26 giugno la Corte d’Assise di Vicenza ha pronunciato la sua sentenza sul caso dell’inquinamento da Pfas delle acque di una vasta area del Veneto in cui vivono oltre 300.000 persone; e che vedeva imputati 15 dirigenti della ex Miteni, fallita nel 2018, che nel suo stabilimento di Trissino aveva prodotto queste sostanze chimiche sin dagli anni Sessanta. Quattro di questi dirigenti sono stati assolti, mentre gli altri 11 sono stati condannati a pene comprese tra i 2 anni e 8 mesi e i 17 anni e 6 mesi, per un totale di 141 anni, per i reati di avvelenamento delle acque, disastro ambientale e bancarotta fraudolenta: una condanna andata anche oltre le richieste dei pubblici ministeri, che ammontavano ad un totale di 121 anni. Decine i milioni di euro di risarcimento riconosciuti poi alle 300 parti civili, tra enti pubblici e privati, tra cui 58 milioni al ministero dell’Ambiente. Si tratta della prima sentenza di questo tipo.
Nello specifico, le condanne più pesanti sono arrivate per due dirigenti della Miteni stessa e due di Icig, la società lussemburghese che ha controllato lo stabilimento dal 2009 fino al fallimento nel 2018; poi per due dirigenti di Mitsubishi, anch’essa una controllante fino al 2009. Va ricordato infatti che uno degli aspetti complessi della vicenda è stato appunto quello societario: l’azienda era infatti nata con il nome di RiMar (dalla famiglia Marzotto) come centro di ricerca per il tessile, per essere poi acquisita nel 1988 da EniChem e Mitsubishi assumendo il nome di Miteni, e infine da Icig nel 2009. Facile quindi intuire come l’individuazione delle responsabilità sia stata oggetto di lunghi dibattiti, tra chi ha materialmente iniziato ad inquinare e chi, pur arrivando dopo, ha consapevolmente proseguito o quantomeno non è intervenuto sulla situazione creatasi.
Per quanto siano arrivate nell’immediato le parole di compiacimento delle istituzioni, tra cui quelle del presidente della Regione, Luca Zaia, gli applausi alla lettura della sentenza sono arrivate soprattutto dalla società civile: in particolare dalle Mamme No Pfas, il gruppo “simbolo” di questa lotta contro l’inquinamento delle acque, e che si è sempre detto fiducioso nella giustizia. Ricordiamo che il gruppo ha sollevato la questione Pfas non soltanto nei confronti delle istituzioni locali, ma anche di quelle europee e internazionali, in coordinamento anche con altre realtà che sostengono istanze analoghe.
Una sentenza definita “storica” anche da Legambiente, che si è espressa in un comunicato con gli interventi del presidente nazionale Stefano Ciafani e di quello veneto Luigi Lazzaro; che si augurano che «la sentenza di oggi possa essere un monito ed una spinta ulteriore a rispettare quanto previsto per la bonifica del sito produttivo e ad accelerare l’applicazione di soluzioni anche per il disinquinamento delle acque di falda contaminate. Per affrontare in maniera adeguata l’emergenza Pfas, emersa nel 2013, risulta sempre più urgente, anche alla luce della sentenza odierna, lo sviluppo da parte di governo e Regione di alcuni necessari interventi per una compiuta analisi e stima dello stato di salute dei cittadini, della contaminazione esistente e dell’impatto che l’esposizione ai PFAS ha generato nella popolazione».
A detta di tutta la società civile, infatti, il grande tema è adesso quello della bonifica: queste sentenze non sono infatti di per sé garanzia che questa venga portata a termine, visti i notevoli oneri economici e logistici. Rimane poi più al largo il tema della sostituzione degli Pfas con altre sostanze, un processo iniziato, ma lungo a compiersi dati i loro numerosissimi usi.