Il processo non è uno show

Non è la pena ad essere incerta ma la durata dei procedimenti. Una certa spettacolarizzazione mediatica induce al giustizialismo dimenticando il reinserimento sociale del detenuto. E comunque oltre il 60 % dei delitti è a carico di ignoti
ANSA/LUCA ZENNARO-

La certezza della pena è spesso invocata per sostenere che la sua mancanza è la causa dell’insicurezza che spesso i cittadini lamentano. Sembrerebbe che da essa derivino tutti i nostri guai. In realtà se c’è una cosa certa è proprio la pena, che le sentenze dopo lunghi e laboriosi passaggi giudiziari, riescono a stabilire.

Possiamo discutere sulla misura delle pene inflitte dalle sentenze dei giudici, ma sicuramente non sono incerte. È previsto dal nostro ordinamento che le modalità di espiazione della pena possano variare.Ma esiste un punto fermo che va chiarito.

Il nostro sistema penale prevede la possibilità di distinguere il reato dal suo autore. Il primo è un fatto cristallizzato e la sua sanzione è sancita da una sentenza. Il secondo è una persona e come tale in evoluzione, non cristallizzata né cristallizzabile. Per questa ragione anche il sistema penitenziario non è biecamente afflittivo (sofferenza della pena) ma tende al recupero della persona condannata nella comunità sociale.

Sono altri gli elementi d’incertezza. Secondo l’Annuario statistico 2016 su “Giustizia, criminalità e sicurezza” «l’analisi sul movimento dei procedimenti penali fa emergere approssimativamente che la metà dei procedimenti  è a carico di ignoti. I delitti registrati dalle procure della Repubblica presso i tribunali risultano, in gran misura (61,6 % del totale), come opera di ignoti; nel 19,5 % dei casi si procede all’archiviazione a vario titolo dei delitti ascritti a un indagato, mentre nel restante 18,9 % si dispone per l’indagato (o gli indagati) l’inizio dell’azione penale».

L’altro grave elemento di incertezza riguarda la notevole durata e lunghezza dei processi.

La cronaca recente ci dimostra come una opinione pubblica emotivamente caricata possa scatenare tempeste in un animo già sconvolto e turbato,  trasformando una persona fragile da vittima  in  “giustiziere fai da te”.  La lentezza dei procedimenti giudiziali rapportata alla velocità dei processi mediatici sembra infinità e insopportabile. Il moltiplicarsi di trasmissioni  televisive dove si affollano detective, opinionisti,criminologi  ed esperti di vario genere alimentano una urgenza di giustizia che sfocia in incredulità e incomprensione di fronte a verdetti tardivi e lontani dagli eventi che sono stati valutati.

In questo contesto la funzione rieducativa della pena passa in cavalleria e l’istinto emotivo prevale nel sentimento diffuso espresso dalla invocata certezza della pena.

  Con la giustificazione che “la gente non capirebbe”, la politica, che deve saper orientare l’opinione pubblica e non solo assecondarne le richieste, si produce volentieri in legislazione muscolare e con forte riluttanza  in legislazione coerente con l’articolo 27 della nostra Costituzione che esige la positiva tensione alla rieducazione del condannato.

C’è sicuramente una responsabilità della classe dirigente. Ma accanto ad essa ci deve essere anche una mobilitazione forte da parte della società civile capace di sostenere sia la critica alla politica per le sue lentezze ma anche il giusto sostegno ad una seria progettualità nel perseguire il reinserimento sociale dei condannati.

Reclamare inutili durezze carcerarie e dimenticare i drammi di quanti hanno il carcere in casa con un detenuto a domicilio che “carcerizza” l’intera famiglia, non accresce la certezza della pena ma la nostra insicurezza.

È certamente preferibile avere 9.857 persone in detenzione domiciliare anziché in carcere. Ma se queste persone sono abbandonate a se stesse e gli unici rappresentanti dello Stato che conoscono sono quelli che ne controllano il loro permanere in detenzione a domicilio, stiamo giocando a scaricabarile. Perché, di fatto, ci siamo pilatescamente lavati le mani e abbiamo trasformato diecimila famiglie in “carcerieri”, dimenticandoci di tutti i loro problemi, le difficoltà e le angosce che mettono a serio rischio la sopravvivenza della famiglia stessa.

Non tutti hanno compreso il reale significato della denominazione del Dipartimento di recente istituito presso il Ministero della giustizia: Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità.

La comunità dove si scontano le pene e misure alternative non è un luogo anonimo e impersonale, ma un luogo vivo e responsabile dove ogni attore deve fare la sua parte. Una comunità che non prende in carico i problemi che in essa si sviluppano, lavora alla sua distruzione.

Assieme agli organi di controllo devono essere mobilitati i servizi sociali locali, le strutture scolastiche, le parrocchie, le associazioni di volontariato, il vicinato perché tutti abbiamo un interesse concreto a che la pena certa inflitta sia espiata, con le modalità previste dalla legge, senza vendetta, senza stigmatizzazione ma come vuole  il nostro ordinamento tendendo al reinserimento sociale del condannato. Perché, come afferma il senatore Ichino, siamo convinti che la riconciliazione del condannato con la società civile costituisca la garanzia di sicurezza migliore per la società stessa.

 

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