Processo alla musica, e a Furtwängler

Prendere posizione è quello che chiede il maggiore americano Steve Arnold agli inquisiti. E a noi pubblico, nell'opera "Taking side".
taking sides

In un testo di Thomas Bernhard, il protagonista Minetti esclama che «l’artista non può essere pusillanime». In Taking side il drammaturgo e sceneggiatore Ronald Harwood sembrerebbe rispondere che l’uomo, invece, non solo può, ma spesso lo è, che sia artista o meno. Da qui scatta lo scontro verbale tra due mondi, due ideologie, due culture, due modi di concepire la responsabilità dell’artista. Reso celebre dal film A torto o a ragione del regista Istvàn Szabò, interprete Harvey Keithel, Taking side torna in una messinscena italiana grazie alla lucida regia di Manuela Kustermann.

 

Prendere posizione è quello che chiede il maggiore americano Steve Arnold agli inquisiti. E a noi pubblico. Nella Berlino distrutta del 1946, egli è impegnato a condurre l’inchiesta militare Usa sulle possibili connivenze col nazismo del maestro Wilhelm Furtwängler, mitico direttore d’orchestra dei Berliner Philarmoniker, rimasto al suo posto per tutti gli anni del Terzo Reich, accusato di averlo fiancheggiato. Il maggiore, sconvolto dagli orrori che ha visto a Bergen Belsen e che lo perseguitano in incubi notturni, è convinto che qualsiasi tedesco che non si sia ribellato a tali orrori sia colpevole. Nell’indagare testardamente, egli, arrogante e ignorante qual è, guarda con sospetto qualsiasi cosa che sappia di cultura, ma si sente in prima linea nel difendere libertà e dignità dell’uomo. Dall’altra parte della sua scrivania c’è un artista, di cui il regime aveva paura e che tentò di strumentalizzare. Si difende dalle accuse di filo-nazismo cercando di spiegare come sia sceso a compromessi per salvare lo spirito della musica tedesca, per infondere coraggio e speranza durante il conflitto, senza mai iscriversi al partito nazista e aiutando molti ebrei.

 

Il testo pone riflessioni, dubbi e domande, lasciando a ciascuno di esprimere il proprio giudizio. Nel professare esplicitamente la netta separazione tra arte e politica, si parla di cultura davanti alla violenza della storia, e di debolezze e meschinerie umane, arrivando ad un finale quasi a sorpresa. «Solo i tiranni conoscono il potere dell’arte», dice il giovane tenente Willis. La preoccupazione degli uomini di regime di assicurarsi il favore degli artisti dimostrerebbe quanto essi riconoscano l’enorme potere persuasivo dell’arte in campo politico, che forse dovrebbe essere sfruttato dagli stessi artisti per opporsi. Il verdetto sul caso Furtwängler (che nella realtà verrà assolto) resta al di là del confine temporale dell’opera. Sospeso.

 

L’intreccio della messinscena, dall’andamento inquisitorio, si svolge dentro un interno d’ufficio e corridoi laterali circondati da mura sbrecciate e da mattoni in primo piano sui quali poggia un vecchio grammofono che diffonderà le note sublimi di Beethoven e Bruckner. La robusta costruzione drammatica avvince per la forza della parola, restituita con verità e veemenza soprattutto da Giuseppe Antignani, energico e sicuro nel rendere la complessa e ambigua figura del Maggiore. Ad Alberto Di Stasio, un Furtwängler dalla recitazione un po’ di maniera, sono affiancati due personaggi teatralmente giusti, il giovane ufficiale Willis, e una tedesca, Straube, figlia di un generale che attentò a Hitler: i bravi Antonio Grosso e Giada Prandi. Inoltre Gaia Benassi, la farneticante vedova di un pianista ebreo, e Alberto Caramel, il secondo violino del maestro.

 

Regia Manuela Kustermann, traduzione Alessandra Serra, scene Marco Martucci, costumi Francesca Linchi, disegno luci Valerio Geroldi, musiche originali Paolo Vivaldi. Al teatro Vascello di Roma, fino al 14 marzo.

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