Prigioniero nella “Solitaria”

Minuto e all’apparenza fragile, ma dotato di un’energia che esprime col tono appassionato della voce e con la gestualità, dom Marcelo Pinto Carvalheira, arcivescovo emerito di Paraíba, è nato nel 1928 a Recife, diocesi difficile ai tempi di dom Helder Camara, di cui è stato stretto collaboratore (l’arcivescovo era visto come il fumo negli occhi dai militari allora al potere). A Recife, dom Marcelo è anche venuto in contatto, nel 1958, con il primo gruppo di focolarini europei arrivati in Brasile e da allora è sempre stato vicino al movimento, seguendone gli sviluppi in quell’immenso paese. L’ho conosciuto in occasione del convegno di vescovi amici del Movimento dei focolari che lo scorso febbraio ne ha riuniti un centinaio al Centro Mariapoli di Castel Gandolfo (cfr. Città nuova n. 6). Imprevedibilmente dom Marcelo ha dovuto anticipare il ritorno nella sua diocesi a motivo delle inondazioni che proprio in quei giorni hanno devastato il Paraíba, una regione caratterizzata piuttosto da siccità, dove da trent’anni non si verificavano piogge torrenziali come nello scorso inverno. Prima però di partire, ha acconsentito a narrarmi questo drammatico episodio in cui si è trovato coinvolto nei primi anni Settanta. Mi trovavo a Rio Grande do Sul, nel sud del paese, incaricato da dom Camara di un corso per rettori di seminari, quando di punto in bianco sono stato arrestato e trasferito in manette in un carcere a San Paolo. Identica sorte è toccata ad uno dei corsisti, uno studente di teologia domenicano. Eravamo accusati di organizzare, sotto la copertura di quel corso, il crollo del regime. Inoltre, dicevano, avrei avuto contatti con un famoso rivoluzionario (che peraltro conoscevo solo dai giornali). Cascavo letteralmente dalle nuvole: non avrei mai supposto in me tali capacità sovversive! La verità era che, non potendo mettere le mani addosso a una personalità di spicco internazionale come don Helder Camara, le autorità cercavano di creargli il deserto attorno prendendosela con i suoi collaboratori più diretti. La prigionia, durata 51 giorni, è stata terribile, con interrogatori anche di dodici ore. Eppure, proprio in quel carcere in cui ero tagliato fuori da tutto e da tutti, sotto la minaccia incombente della tortura che lì era prassi normale, ho vissuto le esperienze spirituali più intense di tutta la mia vita. Lì veramente unico sostegno per me è stato Gesù nel momento in cui, dopo aver gridato il suo abbandono in croce, si è riabbandonato al Padre. Dalla mia cella di un metro e mezzo per due chiamata Solitaria, riuscivo – attraverso una sorta di feritoia – a scambiare qualche parola col mio vicino di prigionia: un attivista marxista di nome Jeovah, che in seguito alle torture subite (fra cui il terribile pao de arara a base di elettroshock) giaceva immobilizzato sul suo lettuccio, coperto di ferite. Era una persona molto colta, che aveva dedicato l’intera sua vita agli ultimi, agli esclusi. E avrebbe continuato a farlo, asseriva, qualora avesse recuperato la libertà. Jeovah – mi è venuto spontaneo dirgli ad un certo punto dei nostri colloqui -, tutti parlano di me come di un eroe, ma io ho fatto ben poco; sei tu invece il vero eroe, tu sì che hai amato i tuoi fratelli! Chi fa così, dice san Giovanni, è passato dalla morte alla vita. E gli narravo la parabola del giudizio finale, quando Gesù riterrà fatto a sé tutto quanto avremo fatto o no al prossimo in necessità… Jeovah beveva letteralmente queste cose e, commosso, è scoppiato in pianto. In seguito gli ho letto qualche brano piuttosto movimentato degli Atti degli apostoli. Era affascinato dalla figura di san Paolo apostolo, che incurante di pericoli e persecuzioni si era speso per l’ideale in cui credeva. Forse gli richiamava in qualche modo la sua vicenda personale?. Un giorno, per interessamento del cardinale di San Paolo, ho ottenuto di poter celebrare la messa in un corridoio del carcere. I reclusi assistevano dalle loro celle, mentre Jeovah è stato trasportato sul suo giaciglio accanto all’altare. All’omelia ho parlato delle beatitudini e dopo la consacrazione, mi sono accostato alle celle per verificare chi era in grado di ricevere la comunione. A questo punto Jeovah, tra le lacrime, mi ha supplicato insistentemente di ricevere l’Eucaristia Giorni dopo venivo scarcerato per mancanza di prove. Potevo fare ritorno nella mia diocesi, sia pure col marchio di elemento pericoloso. Al momento di congedarmi da Jeovah, gli ho regalato un libro su san Francesco. Di lui, in seguito, ho saputo notizie contraddittorie dai giornali. Una volta l’ho riconosciuto in una foto tra altri personaggi espulsi dal Brasile e rifugiatisi in Francia (era ancora in carrozzella, a causa dei postumi delle torture). Sempre dai giornali, pochi mesi dopo ho appreso che, nel tentativo di rientrare in patria, era morto in uno scontro a fuoco con le forze governative alla frontiera col Paraguay. In realtà, come ho appurato da altra fonte, le cose erano andate diversamente: due killer lo avevano freddato a tradimento mentre assisteva ad una partita di calcio giocata dai giovani di una parrocchia di frontiera cui si era dedicato. Povero amico mio martire! Conservo ancora la foto del tuo cadavere, mandatami dal parroco di lì: un documento prezioso per me, quasi una moderna stazione della via crucis che Cristo ogni giorno percorre per noi.

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