Port-au-Prince, un’umanità straziata

L'impatto con la capitale haitiana non lascia scampo. Troppe ingiustizie, troppi contrasti, troppo dolore in questa metropoli che conta ancora un milione di senzatetto. Dal blog  In viaggio
Haiti bimba
Tornato finalmente a casa trafelato e madido di sudore, fatta una doccia liberatrice, mi accomodo su una poltrona del portico grande della casa degli oblati che mi ospita. Spira una leggera e fresca brezza, dopo un’indicibile catena di emozioni che hanno, come sempre ai tropici, coinvolto tutti e cinque i sensi. Cerco di farmi largo nella folla dei ricordi, delle immagini registrate dai neuroni del mio cervello, più che dalle schedine digitali della mia macchina fotografica, nella catena ininterrotta di emozioni che la giornata mi ha riservato. L’impatto della città, non posso negarlo, è stato imponente, straziante, direi impossibile da acquietare.

 

Sì, Port-au-Prince mi ha buttato per aria le certezze della mia vita pacifica e in fondo bella. Troppa umanità straziata, troppa ingiustizia, troppi contrasti, troppo fango, troppa fogna, troppa puzza, troppi sorrisi, troppe strette di mano, troppe vergogne loro e mie, soprattutto mie. Troppo. Berlusconi direbbe “poveri cristi”, la Clinton “umanità che attende la nostra mano”. Ma qui sono troppi, c’è solo un solo, enorme Cristo abbandonato che grida, esteso come la metropoli haitiana, numeroso come il milione di persone che ancora non ha una casa in muratura o in legno ma solo un telo sopra la testa, indignato come le troppe donne violate dai maschi in calore nella promiscuità colpevole, angosciato come i disoccupati al 90 per cento della popolazione, sfigurato come il centro cittadino sconvolto dal sisma, spaventato come i bambini che piangono dinanzi al mio obiettivo, sfruttato come il mare di Ong che qui sfruttano l’emergenza. Troppo.

 

La città dall’alto, nella placida sera tropicale sulla baia di Port-au-Prince, pare un’oasi di pace, ombreggiata dai palmizi che svettano dinanzi alla mia abitazione sulla collina residenziale. Osservo il monumento di Aristide, sgorbio architettonico e imperizia ingegneristica, e non posso non sovrapporre la bellezza della sera alla miriade di volti il cui sguardo ho incrociato quest’oggi, il più delle volte per elemosinare una foto, chiedendo un ok, un cenno di assenso, il più delle volte concesso dalla benevolenza dell’oggetto dell’immagine, che ha surclassato la benevolenza, o la condiscendenza, o la presunzione, o la codardia, o la curiosità, o la vergogna da scoop, o la inconfessata supponenza del giornalista che io sono, che pretendo di essere, un pur capace scribacchino che redige un libro in una settimana, mentre in una settimana Nadine, una donna scorta nella penombra di una tenda, non arriva a raggranellare per i suoi sei figli nemmeno cinque dollari vendendo banane e carbonella.

 

Port-au-Prince s’avvia all’oscurità, e non posso non distendermi per la notte accanto alle ricchezze umane – umano-divine? – che oggi la Provvidenza mi ha dato d’incontrare. Mi sento fortunato. Anzi, benedetto. E quando, poco più tardi, comincia a piovere un acquazzone tropicale che pare il cielo caduto in terra ripenso alle tende dei terremotati. Abbiamo diritto di lasciare anche un solo bambino, una sola donna, un solo vecchio in balia dei terribili capricci del tempo? M’addormento nel fango.

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