Pol Pot e i tre milioni di crani

Sono in Cambogia: ho visitato i due mausolei al genocidio khmer di Phnom Penh. Un'esperienza indimenticabile, violenta. E non può essere altrimenti. (Mi si perdoni qualche termine “forte”).
Khmer

Anche questa volta ho toccato l’abominio, l’ho solo sfiorato e sono stato preso nella rete. La rete dello sdegno. Come se i tre milioni di cambogiani fossero di un altro mondo, come se io non fossi capace di commettere atti tanto efferati, addirittura impensabili. E invece no, anch’io sono in potenza un altro Pol Pot. Anch’io, avessi un altro itinerario di vita, potrei trasformarmi in un carnefice.

 

Anch’io, pur guardando negli occhi la mia vittima, potrei sparargli a bruciapelo proprio in mezzo a quei due occhi. Scaccio così la rete dello sdegno – che demonizza l’altro, che allontana il prossimo, che distoglie dalla verità – per ammettere la mia umanità. E mi accingo così a visitare due haut lieu del regime dei khmer rossi: la prigione di Toul Sleng, a Phnom Penh, e Choeung Ek, il cmpo d concentramento ad una dozzina di chilometri dal centro della capitale. Due mausolei del genocidio. Duro, duro.

Toul Sleng: sotto l’insegna dell’entrata sette-otto mutilati del genocidio chiedono l’elemosina. Li ho mutilati io. Mi faccio sfilare dinanzi cento e cento foto di vittime, le mie vittime, e di carnefici, i miei compagni di disperazione e di perversioni. Li guardo tutti negli occhi di carta, hanno sguardi spenti, senza più odio, gli occhi dei condannati a morte, gli uni e gli altri, che per caso si sono trovati gli uni dalla parte di Lon Nol e gli altri dall’altra, quella di Pol Pot, in fondo senza saperne nemmeno il perché. Perché così ha voluto il fato, gli dèi, l’energia cosmica che tutti ci avvolge.

E i muri sventrati, folli aperture senza logica e senza misericordia, gli strumenti di tortura, sofisticati, made in China in Laos in Vietnam.. E quelle foto dure, senza speranza e senza passato, sguari sospesi nel nulla di un presente che sfregia la sola convivenza umana possibile, quella che viene dalla coscienza che la morte ci accomuna. Ma perché mai accelerarla, se è destinata prima o poi ad arrivare beffarda?

 

Mi raccontano le storie di chi è sopravvissuto in questa prigione, sette persone in tutto. Io, carnefice, avrei ora il diritto (e il coraggio) di guardarli negli occhi? Non lo so proprio. Acquisto un libretto che riporta la storia di Vann Nath: One year in the Khmer Rouge’s S-21. Non riesco a commentare, resta solo da tacere e rispettare. Salgo i gradini del palazzo in cui erano rinchiuse le donne e i bambini. Mi sento odioso, sporco, soperto di vergogna e colpevolezza. Celle di due metri quadri, di mattoni di legno di cartone. Condannate a morte, le belle e fragili donne cambogiane, nella ricerca d’un’impossibile assoluzione, d’una immaginaria redenzione collettiva del loro popolo. O fors’anche semplicemente eprsonale, ma redenzione. Dove trovarla? Nel Buddha, nel re in esilio, negli americani? Nulla, solo i muri di laterizi sbeccati e informi.


Ossa crani tibie. A mucchi, anche qui. La “degna sepoltura” non era considerata nel novero delle possibilità. L’anonimato delle ossa del cranio private degli occhi, anzi degli interi bulbi oculari. L’immagine mi ossessiona, rivedo la mano degli aguzzini-bestie cavarli dalle orbite di quegli uomini e di quelle donne colla sola colpa di essersi trovati dalla parte sbagliata al momento sbagliato. Le mie mani, LE MIE MANI! Macchiate di sangue e di liquido oculare, materia vischiosa che rimane incollata alle dita, indelebilmente…


M’allontano, turbato, lo confesso. L’operazione intrapresa la ritenevo catartica, ma in realtà mi pare solamente diabolica, infernale. Debbo bere il calice fino all’ultima goccia. Fermo così un tuc tuc, i tricicli a motore che sfrecciano nella città inquinandola da mane a sera, e mi faccio portare al campo di concentramento di Choeung Ek, lì dove i cittadini non ammazzati alla prigione di Toul Sleng venivano condotti per farla finita in modo “economico”.

 

Le pallottole erano infatti diventata merce rara, un bene prezioso (che eufemismi!), non valeva la pena di sprecarle per achever un uomo o una donna (il verbo francese ha una valenza semantica straordinaria: achever, cioè chiudere, conchiudere, esaurire, brutalizzare… tutto insieme!). Le donne le bastonavano sulla testa fino a tramortirle, e poi le seppellivano vive. I bambini… la mostruosità… I bambini venivano afferrati per le gambe facendo sbattere il loro capo su un tronco, questo tronco, proprio questo qui che sto toccando, la corteccia ormai è ricresciuta. Ciuffi di abiti emergono dal suolo, ancor oggi. Gli uomini? Venivano ammazzati come capitava, risparmiando pallottole, please. 43 fosse su 129 censite non sono state ancora aperte. Perché non terminare il lavoro? A che scopo? Con quali progressi?


M’avvicino al memoriale del genocidio, una slanciata pagoda bianca gialla verde. E, all’interno, una “colonna oscena”, non infame, di teschi. Venti metri in altezza. Per avvicinarsi alle vetrine che limitano la colonna tocca passare per strettissimi pertugi attorno alla colonna, quasi costretti a sfregare il proprio corpo di carne contro l’immondo precipitato di teschi umani. Mi sottopongo al rito, con gli occhi fissi su quei teschi.


Ognuno di quei teschi è il mio. Ognuno di quei teschi è quello dell’uomo del Calvario. La catarsi è compiuta, perché sono ormai solidale con le vittime della violenza dei khmer rossi, ma anche coi carnefici seguaci di Pol Pot.

 

(dal blog di Michele Zanzucchi)

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