Più alberi, più mucche, più carne e più latte

Questa inusuale equazione è una realtà per 3 mila allevatori colombiani che, con un progetto sostenibile, evitano di deforestare per ottenere pascoli frenando con ciò la contrazione delle foreste e il cambio climatico

Foresta-deforestazione-legname-allevamento. Questo è il ciclo di sostentamento per tanti, troppi, colombiani. Per i più fortunati l’allevamento è a grande scala, oppure è sostituito dall’agricoltura o, meglio ancora, dallo sfruttamento di miniere o giacimenti petroliferi. Siamo in uno dei Paesi con maggior ricchezza naturale al mondo: una biodiversità straordinaria (seconda solo al Brasile per varietà), 5 fasce geografiche e climatiche diversissime – dall’Amazzonia al Pacifico, passando per le Ande, la conca dell’Orinoco, e la costa dei Caraibi –, petrolio, oro carbone, pietre preziose, caffè, zucchero, mais, banane… Eppure, sono centinaia di migliaia le famiglie che in Colombia sussistono o sopravvivono con meno terra di quella che necessita una mucca per nutrirsi. Secondo l’Ong Oxfam, l’1% dei proprietari terrieri occupano l’81% della terra coltivabile del Paese. Secondo dati del ministero dell’Ambiente, tra il 1990 e il 2015 il 60% degli alberi sono caduti per creare pascoli o per speculare con i terreni.

Dati allarmanti. Non per nulla è una nazione appena uscita (e non ancora del tutto) da mezzo secolo di guerra civile provocata dalla ribellione delle guerriglia nata dalla rabbia dell’ingiustizia (che poi sia degenerata nel narcotraffico e in altri crimini, è un’altra storia). La maggior parte della terra utile – l’80% – si usa per l’allevamento, e solo il 20% per l’agricoltura. Uno dei maggiori problemi creati da questo modello di “sviluppo” è che, quale che sia la motivazione di chi vi si dedica (uscire dalla povertà, produrre ricchezza o arricchirsi), la base è la deforestazione. Che, oltre ad impoverire il suolo, a facilitarne l’erosione, e ad espellere tante forme di vita animali e vegetali, oltre che umane (gli indigeni in isolamento volontario) e ad alterare il regime delle piogge (che nelle zone boscose scarseggiano sempre di più), è una delle principali cause del cambio climatico, poiché le foreste assorbono il diossido di carbonio, riducendo l’effetto serra che riscalda la Terra. Per far sì che foreste, allevamento e autosostentamento non siano più termini incompatibili, 7 anni fa la Federazione degli allevatori, finanziata dalla Banca mondiale e con la collaborazione tecnica della Ong britannica The Nature Conservancy (Tnc), del Fondo per l’azione ambientale e l’Infanzia e la Fondazione Cipav ha avviato il più grande progetto di allevamento sostenibile in Colombia, che ora comincia ad evidenziare innegabili effetti positivi.

Così, 2.998 piccoli, medi e grandi allevatori di 87 territori comunali in 12 regioni di 4 aree geografiche diverse hanno di che vivere e allo stesso tempo frenano il cambio climatico. Gli appezzamenti in questione hanno in comune tre caratteristiche, secondo il coordinatore del progetto Andrés Zuluaga: sono situate in zone già sfruttate per l’allevamento, si trovano in diversi ecosistemi e albergano ancora vaste aree ambientalmente ben conservate. Zuluaga ha recentemente spiegato al quotidiano El Espectador, che la logica del “metodo silvano-pastorale” (questa la denominazione tecnica) è che, a maggior quantità di alberi presenti sul terreno, corrisponde maggiore produttività. Più cibo per le mucche, quindi, e tra l’altro più regolare, perché meno condizionato dai periodi più parchi di precipitazioni. Le cifre del programma, presentate recentemente, lo dimostrano: in epoche “secche”, i terreni del progetto hanno fornito cibo e spazio vitale al 24% di capi in più rispetto alle tecniche tradizionali. Perché?

«Oltre a produrre più cibo per i vitelli, gli alberi e arbusti autoctoni presentano una maggiore qualità nutritiva che la semplice erba, con persino il doppio o il triplo di nutrienti, come le proteine», illustra Zuluaga, che segnala un aumento del 155% nella produttività di latte.

Inoltre, come è logico, la vegetazione nativa nutre meglio il suolo ed è essenziale per la sopravvivenza della biodiversità. Il metodo consiste nel far pascolare il bestiame in aree naturali di vegetazione autoctona, oppure di piantarne o seminarne se ce ne fosse bisogno, nel rispettare i corsi d’acqua con corridoi idrici e «far arrivare l’acqua agli animali, e non gli animali all’acqua», delimitando gli appezzamenti con alberi o arbusti piantati che poi potranno essere usati per produrre legna o foraggi. La rotazione delle aree di pascolo assicura poi la decompressione del terreno e la sua fertilità. Il controllo tecnico della presenza di insetti e la preservazione della vegetazione assicura poi un alto grado di sanità animale.

La consulenza tecnica ai produttori ha permesso loro di recuperare suoli degradati e acidi di montagna. Il progetto permette anche di ampliare l’offerta lavorativa nelle aree del “post conflitto” guerrigliero, aumentando così le opzioni per gli ex ribelli. Per non parlare degli effetti positivi nella conservazione di biomi di grande interesse naturalistico e scientifico come la brughiera andina umida di alta montagna, le zone paludose basse, i boschi secchi e la selva. Un modello di sviluppo compatibile con l’ambiente, col turismo (altra grande risorsa del Paese), con la sicurezza alimentare e altre fonti di sostentamento come la piscicoltura, con grandi possibilità di fare rete tra i gestori di aziende di tali settori in una medesima area geografica, assicura opportunità di futuro ai figli degli allevatori, con i vantaggi annessi di un’occupazione del territorio a bassissimo impatto ambientale, scongiurando l’abbandono delle zone rurali e l’ingrossamento delle sempre più gigantesche periferie urbane povere.

Ora, se i benefici di questo metodo sono così palesi, perché mezzo milione di allevatori colombiani non lo adottano? «Perché il rendimento economico, al contrario di quello che si pensa, non lo giustifica – risponde il tecnico –. Si tratta di un’economia di sussistenza, perché l’80% dei produttori possiede meno di 50 animali». Il che, in Sudamerica, è pochino. E soprattutto, la riconversione produttiva implica una spesa di quasi 900 euro, che pochi possono permettersi. Zuluaga, tuttavia, non si arrende: «La nostra meta è far sì che lo Stato pensi al metodo silvano-pastorale come politica di sviluppo», afferma. Le agevolazioni per il credito non sembrerebbero un’utopia, anche perché un attore chiave come la Federazione degli allevatori è tra i promotori del progetto. E anche il crescente interesse del ministero dell’Ambiente, dell’Agricoltura, dell’Allevamento e dello Sviluppo Rurale fa ben sperare.

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