Pino Petruzzelli, voce fuori dal coro.

Cercare di dare spazio e visibilità a chi apparentemente non esiste. L’attore e regista pugliese lo ha fatto prima con il libro Non chiamarmi zingaro, diventato poi un lavoro teatrale. Ora ci riprova con Gli ultimi
Pino Petruzzelli

«Gli ultimi che intendo raccontare– scrive Pino Petruzzelli – sono persone che riescono a capovolgere le sorti di una vita in apparenza compromessa. Solitari ma non soli e che hanno scelto la dignità prima di tutto. A volte provocano, a volte possono disturbare, ma è la loro semplicità che può dar fastidio. La semplicità è una dote difficile da conquistare, diceva Chaplin».

Petruzzelli, attore e regista pugliese, è un cercatore di umanità. Negli anni ha sempre accompagnato lettori e spettatori in viaggi che inseguono le persone e le storie, con incontri sorprendenti. L’ultimo suo lavoro è proprio un viaggio lungo dieci anni diventato un libro che ha presentato a Genova, tra i suoi amici di sempre: la comunità rom della città. Gli ultimi è il titolo di questo racconto, che è anche luogo di incontro di tanta gente: uno degli ultimi beduini che ancora vivono nel deserto del Negev; Zeidan, muratore palestinese che si è guadagnato da vivere costruendo il muro della vergogna che separa Israele dai Territori palestinesi; il maestro d’ascia di Lampedusa che conduce una battaglia solitaria contro l’inquinamento; il guardaboschi amico di Mario Rigoni Stern, che difende la montagna e la sua cultura. Ce ne sarebbero molti altri e non si finirebbe più di elencarli, ma gli uomini raccontati da queste pagine hanno una caratteristica comune: non sono né perdenti né vincenti, hanno solo scelto altre regole del gioco.

 

Mi ha colpito il tuo modo di fare il vuoto, di ascoltare. Cosa ti ha spinto a cercare ”gli ultimi”?

Mi interessava cominciare un viaggio nel presente, all’interno delle comunità maggiormente presenti in Italia: marocchini, albanesi.. Oggi potrei dire: nella speranza di poter cambiare qualcosa, se non la vita degli altri, almeno la mia. Credo che il gesto sia più importante del risultato finale. Questo significa iniziare su una strada sapendo di non stare dalla parte di chi distrugge. Non vorrei arrivare al giorno della mia morte e accorgermi che avrei voluto stare dalla parte di chi poteva fare qualcosa e non l’ha fatto..

 

Hai scritto nel 2008 un libro dal titolo “Non chiamarmi zingaro”: perché?

Mi sembrava impossibile condannare in toto un’etnia. Impossibile pensare che tutti gli zingari siano potenziali ladri di bambini. Volevo averne una conoscenza personale. A volte si rischia di portare avanti le idee degli altri, non le nostre, magari per pigrizia o perché ci manca la volontà di metterci in gioco, perché non vogliamo sporcarci le mani…

 

In tutto questo c’entra qualcosa della tua storia?

Sono nato a Brindisi, mio padre era capitano in marina; a 8 anni ci siamo trasferiti ad Ancona. Pensavo di iscrivermi a chimica. Poi un giorno mia madre mi portò un ritaglio di giornale: all’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma si tenevano gli esami di ammissione. Tentai e vinsi. Gli anni vissuti a Roma sono stati importanti: insegnanti affascinanti, un tesserino mi consentiva di entrare gratis in tutti i teatri romani. Poi ho lavorato in radio con Andrea Camilleri. A Genova feci un provino per entrare al Teatro della Tosse e fui ammesso. Lì ho conosciuto Paola, con la quale vivo da 25 anni. Così mi sono fermato qui, e insieme abbiamo dato vita al Teatro Ipotesi. Il nostro obiettivo? Il rispetto per chi lavora con noi.

 

Quasi sempre i tuoi lavori teatrali nascono da un viaggio. Quali strategie metti in atto nella realizzazione?

I primi lavori sono stati documentari sulla vita nelle riserve del Nuovo Messico negli Stati Uniti. Quando viaggio cerco di non partire con la guida. Non voglio avere preconcetti o pregiudizi. Voglio essere come una bottiglia vuota che si lascia riempire. Successivamente raccolgo e completo tutte le informazioni. Quando sono stato in Israele e in Palestina sono stato facilitato dall’età, ero molto giovane e sembravo forse sprovveduto. La mia tattica, anche nei miei lavori, è un po’ quella dei giornalisti: arrivare subito al dunque.

 

Nel tuo libro “Gli ultimi” condividi le sorti di un neuropsichiatra israeliano, poi di alcuni palestinesi…

Purtroppo spesso ci si divide in tifoserie e la gente in Terra Santa soffre moltissimo dall’una e dall’altra parte. Tanti giovani israeliani stanno emigrando perché la quotidianità è terribile, si vive con il mitra in spalla. Sono i più deboli a farne spesso le spese. Se sei ultimo, sei ultimo per tutti. Come dice uno dei miei personaggi però “importante è far tacere le armi, non importa chi ha ragione”, anche in questo Paese.

 

In quello che scrivi si coglie un forte senso religioso. Ti dichiari agnostico, ma quando racconti, in “Non chiamarmi zingaro”, di saintes Maries de la mer e di padre Joseph, non ti tiri indietro su questi argomenti…

 

Mi ha colpito molto l’incontro con Bonhoeffer, la sua assunzione di responsabilità nei confronti di Hitler, era cristiano… Penso che occorra provare a fare cose non diverse da ciò che si pensa e si dice. Mi interessa il gesto. Continuo a credere che qualcosa possa cambiare. E’ la mia speranza; forse si tratta di “dare acqua all’albero secco”, anche se sarà del tutto inutile, ma tra agire e non agire preferisco la prima possibilità. Poi c’è un dopo…se nessuno è tornato indietro vuol dire che non si sta tanto male…

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