Petrolio: una crisi positiva?

Quando – solo quattro mesi fa – scrivevo su queste pagine che in pochi anni avremmo sperimentato una seria crisi energetica, mi ero chiesto se facevo del catastrofismo. E invece, passati pochi mesi, la crisi è già presente: non fra anni, ma già oggi. Il governo cinese, dato che la produzione di energia elettrica non basta più, in attesa di nuovi impianti termici, idroelettrici e nucleari, ha imposto alle industrie ad alto consumo turni di fermata per ridurre i frequenti black-out nelle grandi città. Intanto il petrolio ha ampiamente superato i 50 dollari ed il sempre crescente tributo di vite umane di civili e militari in Iraq non fa prevedere che il suo prezzo possa scendere grazie ad una maggiore produzione in quel paese. Il motivo della crisi del petrolio non sta solo in Medio Oriente e nelle economie asiatiche, che oggi non possono consumarne di più per la mancanza di impianti che lo trasformino in energia elettrica. Il fatto è che siamo arrivati vicino all’equilibrio tra consumo mondiale e massima produzione possibile. In queste condizioni basta un evento anche di modesta entità per far temere che non sia disponibile tutto il petrolio richiesto dai consumatori. Allora scatta la gara per assicurarsi a qualsiasi prezzo quello disponibile: così il prezzo dell’ultimo, conteso barile condiziona il prezzo del petrolio per tutto il mondo. Ne abbiamo esempi ogni giorno: i ribelli del delta del Niger, che rivendicano per le popolazioni dell’area i profitti riconosciuti allo stato nigeriano del petrolio estratto da Eni e Shell, hanno ultimamente ingiunto alle due aziende di fermare la produzione, salvo mettere a rischio installazioni e personale; il mercato americano, che importa molto grezzo nigeriano, è allora entrato in tensione, perché i paesi del golfo arabico, che di solito compensano mancate produzioni di terzi, avevano pochi giorni prima già portato al massimo la loro produzione per compensare la mancata produzione nel golfo del Messico dovuta agli uragani, che quest’anno si sono scatenati più violenti, forse anche per il crescente effetto serra. Così il petrolio è arrivato a 50 dollari, e quando ci si è accorti che sarebbe mancato il gasolio da riscaldamento per i consumi invernali degli Usa, la speculazione finanziaria lo ha portato, al momento in cui andiamo in stampa, ad oltre 54 dollari. Del resto è inutile nascondere che la crisi energetica nasce da un problema culturale: negli Usa, e sempre più anche in Europa, il poter utilizzare senza limitazioni autovetture sempre più grandi, senza badare al loro consumo, è percepito come un diritto, un segno dell’esercizio della libertà personale: è un frutto di quell’individualismo che ci porta a fare le nostre scelte senza pensare alle conseguenze che hanno sugli altri. Ma adesso anche negli Usa si inizia a ripensare questo assunto: la rivista Time scrive nell’ultimo numero: Se pochi anni fa avessimo scelto auto di dimensioni più ridotte ed a basso consumo, anziché i nostri Suv (Sport Utility Vehicle, quei macchinoni fuori strada che invece ingombrano proprio anche le nostre strade), potremmo dimenticarci dell’Iraq e dell’Arabia Saudita!. Il 70 per cento del petrolio consumato in Usa serve alle autovetture: se queste consumassero come un’auto diesel media europea, o si utilizzassero auto ibride, gli Usa non avrebbero più bisogno di importare petrolio dal Medio Oriente, e quindi neppure di mandarvi a morire i loro soldati. È dunque assai positivo che alcune città europee, tra cui Roma, abbiano adottato misure per scoraggiare il traffico di tali mostri nei centri urbani. Intanto, il prezzo della benzina ha superato negli Stati Uniti i 2 dollari al gallone (0,45 euro al litro: noi la paghiamo 1,20 euro al litro!), con conseguenze anche politiche: la gente si chiede quali vantaggi pratici abbia portato la politica aggressiva dell’amministrazione Bush in Medio Oriente. Alcuni esperti sottolineano che il prezzo reale al distributore dovrebbe essere calcolato tenendo anche conto delle immense spese sostenute dagli Stati Uniti per l’invasione dell’Iraq (200 miliardi di dollari), un’intera flotta nel Golfo Persico, basi militari disseminate in tutta la regione. Oggi, mentre gli esperti iniziano ad ammettere che il prezzo giusto non è più di 25, ma 35 dollari al barile, il presidente Bush sta varando leggi per agevolare l’acquisto di macchine ibride, mentre lo sfidante Kerry si propone di ridurre i consumi fino ad eliminare le importazioni dal Medio Oriente. Tutti provvedimenti nella giusta direzione, che però avranno un effetto nel lungo termine, mentre è molto probabile che nei prossimi anni l’aumento del prezzo si consolidi e chi compera petrolio debba riconoscere a chi lo vende un maggior costo di circa 20 dol- lari al barile, cioè 140 dollari alla tonnellata. Nel complesso ciò significa, a livello mondiale, il passaggio da consumatori a produttori di ben 265 miliardi di dollari all’anno. È interessante osservare che si tratta dello 0,5 per cento del prodotto lordo mondiale (Pil). Ciò mentre i paesi industrializzati continuano da tempo a sostenere che vogliono investire nella cooperazione con i paesi in via di sviluppo lo 0,7 per cento del loro Pil, ma in pratica negli ultimi anni non ne hanno versato più dello 0,2 per cento. Adesso sono obbligati, per fame di benzina, a versare la differenza. Le vie della provvidenza sono davvero infinite. Questa volta dei 265 miliardi di dollari, 81 saranno a carico degli Usa (il cui deficit commerciale diventerà sempre più abissale), 71 saranno a carico dell’Europa, 35 a carico del Giappone e 3 a carico dell’Australia: quindi il 72 per cento dell’esborso sarà a carico del mondo industrializzato. 67 miliardi saranno invece a carico dell’Asia, Cina ed India (inducendo un forse provvidenziale rallentamento dello sviluppo delle loro surriscaldate economie), 5 miliardi saranno a carico dei paesi africani e 3 miliardi a carico dell’America Latina, in particolare del Brasile. E chi saranno i beneficiari di questo enorme flusso di denaro? Il primo beneficiario sarà l’Arabia Saudita, paese con un grande numero di giovani senza lavoro affascinati dal fondamentalismo e paradossalmente gravato da grandi debiti contratti per le spese belliche dell’ultimo decennio. I 60 miliardi di dollari in più sembrerebbero appena sufficienti a riequilibrare il bilancio. La Russia otterrà 40 miliardi in più; Iran, Venezuela e Nigeria circa 20; Iraq e Indonesia 12; Messico 9; Algeria 5; Angola e paesi limitrofi 4 miliardi. Quindi il 76 per cento andrà a grandi paesi con grandi debiti esteri e popolazioni in crescita, che con tali risorse potranno ridurre il loro debito estero ed effettuare investimenti nel loro territorio. Questo se i loro governanti investiranno davvero queste risorse per il bene delle popolazioni. Non sempre questo è successo, anzi spesso fette rilevanti delle rendite petrolifere sono finite nei loro donti svizzeri. Non è detto però che ciò non succeda: ad esempio sta facendo scalpore la combattiva cinquantenne Ngozi Okonjo-Iweala, madre di quattro figli, attuale ministro delle Finanze della Nigeria, già vicepresidente della Banca Mondiale. Ella vuole rendere trasparente la gestione delle entrate petrolifere del suo paese, oggi tra i più chiacchierati, e quando il presidente Obasanjo era stato convinto a sottrarre al suo ministero le fondamentali competenze su Programmazione e Bilancio, non ha esitato a dare le dimissioni, tornando solo quando tale provvedimento è stato revocato. Il 24 per cento dei maggiori introiti arriveranno però a paesi già ricchi: 27 miliardi agli Emirati del Golfo, 12 a Kuwait e Norvegia, 6 a Libia e Canada. Questi introiti saranno probabilmente affidati al circuito finanziario internazionale, a disposizione di chi vorrà utilizzarli per investimenti. Sembrerebbe quindi che l’aumento contribuisca, almeno in parte ad un riequilibrio della ricchezza delle nazioni. Ed il mondo industrializzato? Una simile enorme imposta internazionale l’aveva già versata con gli aumenti del petrolio dovuti nel ’73 alla Guerra del kippur e nel ’79 alla rivoluzione di Khomeini. Gli introiti di allora erano stati quasi tutti affidati al sistema finanziario, che li aveva riversati a tassi inizialmente bassissimi nei grandi paesi emergenti, i quali non sempre li avevano spesi con profitto; quando poi i tassi si erano rialzati, era nato il problema, ancor oggi irrisolto, del loro enorme debito estero. Questo nuovo salasso, a meno che non diventi ancor più rilevante, non dovrebbe avere ripercussioni drammatiche sull’economia del mondo del Nord. Nel nostro paese l’aumento della benzina non ha creato immediata inflazione né riduzione dei consumi, perché in Italia si utilizza la distribuzione di benzina e gasolio per raccogliere imposte tre volte più alte del costo industriale del prodotto. Stiamo già pagando la benzina tre volte il suo costo, così se questo crescesse del 45 per cento, il prezzo alla pompa aumenterebbe solo del 15 per cento, se il governo non approfittasse per far crescere ancora le imposte. Stavolta non solo gli Usa, ma, diversamente da trenta’anni fa, anche Europa e Giappone hanno il vantaggio di non doversi procurare moneta forte vendendo propri prodotti sul mercato internazionale. Così saranno indotti a pagare il maggior costo creando più dollari, euro e yen. Nelle passate crisi del petrolio si erano creati moltissimi petrodollari che avevano aumentato la liquidità mondiale, con i ben noti effetti di inflazione, ma anche inducendo grandi investimenti nei paesi emergenti. Creare moneta non significa fisicamente stamparne di più: anche questa volta le banche centrali che controllano le monete forti, davanti alla crescente richiesta di credito delle aziende che hanno bisogno di molti più soldi per comperare lo stesso petrolio, saranno indotte a facilitare le loro banche a concedere maggior credito, permettendo agli operatori di indebitarsi di più; in pratica creando così nuovo denaro. Certamente il maggior prezzo pagato dall’occidente peggiorerà i conti pubblici. Il petrolio comperato per spese militari o pubbliche inciderà sui conti dello stato, che sarà spinto ad adeguare gli stipendi al maggiore costo della vita, dovuto non solo ai costi dei trasporti, ma anche al fatto che quasi tutte le cose che usiamo sono prodotte consumando energia. Così per gli stati europei non sarà facile rimanere, senza ridurre le spese sociali, nel limite di un deficit statale del tre per cento, secondo il trattato di Maastricht. Le aziende soffriranno per il maggior costo dell’energia e per i più alti tassi di interesse, se questi verranno aumentati per contrastare l’inflazione. Per contro – un po’ di ottimismo non fa male – esse troveranno più disponibilità di acquisto dei loro prodotti nei paesi beneficiari di questo aumento di risorse. Non del tutto negativa, quindi, questa nuova crisi del petrolio? Certamente essa affretterà l’utilizzo di energie alternative, alcune delle quali diventate, con i prezzi attuali, già convenienti. Rimane il grave problema del maggior costo dell’energia, da pagarsi in moneta forte, che ricadrà sui paesi africani. Potranno acquistarla solo se si permetterà loro, togliendo le barriere doganali, di vendere i propri prodotti ad un prezzo decente. Altrimenti la crisi costituirà un nuovo grande ostacolo per la loro uscita dal sottosviluppo. Non possiamo però dimenticare che mentre i paesi ricchi importatori saranno tassati dall’aumento del petrolio dello 0,5 del loro Pil, altri paesi ricchi avranno invece fatto una vincita al lotto di 64 miliardi di dollari all’anno. Il presidente brasiliano Lula ha ultimamente auspicato, a nome di 50 paesi, una alleanza globale contro la povertà e contro la fame, la più potente arma di distruzione di massa: un’alleanza globale per il diritto alla vita e per uno sviluppo sostenibile: questi paesi ricchi, beneficiati dall’aumento del petrolio, potrebbero aderire a questa alleanza utilizzando almeno parte di quanto riceveranno in più a favore della cooperazione allo sviluppo dei paesi in difficoltà, anche aiutandoli a sviluppare al loro interno l’utilizzo di energie alternative, per affrancarsi dal problema del petrolio. Se c’è una cosa di cui l’Africa è ricca… è di luce solare

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