Persone prima che disabili

Intervista alla prof.ssa Zanichelli sulla sua proposta culturale
Maria Zanichelli

1) Il Suo libro Persone prima che disabili affronta un argomento particolarmente affascinante dalla specifica prospettiva dell’etica e della giustizia. Ci vorrebbe dire il punto di partenza del Suo lavoro e la motivazione che l’ha spinta ad approfondire il tema della disabilità?

Il mio campo di ricerca è la filosofia del diritto, da una decina d’anni mi dedico allo studio teorico della dignità umana e dei diritti fondamentali della persona. Anche in un’epoca come la nostra, in cui individui e istituzioni devono confrontarsi con l’urgenza di problemi concreti gravi e pressanti, la riflessione teorica conserva un suo ruolo imprescindibile. Il diritto è fatto per offrire soluzioni, ma gli sforzi operativi traggono significato dalla consapevolezza dei principi che li ispirano: per questo occuparsi di diritto significa anche andare alla ricerca di questi principi, individuarli e approfondirli, non fermarsi alla superficie.

Questo retroterra “ideale” è presente nella normativa riguardante la disabilità, in Italia come in altri Paesi. La disabilità, infatti, è una delle manifestazioni di quella fragilità umana di cui il diritto oggi si fa carico e si prende cura, e che trasformano il volto stesso del dritto, i suoi fini, le sue priorità, il suo modo di funzionare. Questo lo ha reso per me un tema interessante da studiare.

Certo, accostarsi alla condizione disabile attraverso un’indagine teorica richiede una speciale forma di umiltà e rispetto: scrivendo il libro avvertivo questo richiamo, e spero di essere riuscita a tenerne conto pienamente. La disabilità, infatti, molto prima che un possibile tema di studio, è il dramma che segna l’esistenza di milioni di persone e delle loro famiglie; è dunque anzitutto l’esperienza diretta, ben più di qualunque istanza teorica esterna, che può legittimare a parlarne. Per questo scrivendo ho cercato di dare spazio alle testimonianze di studiosi che vivono personalmente o in un figlio l’esperienza dell’handicap: testimonianze che recano sempre un valore aggiunto rispetto alla pura teoria, e richiedono ascolto più che analisi.

 

 

2) Siamo abituati a sentir parlare di diritti del disabile in termini di integrazione sociale dei soggetti svantaggiati, ma leggendo il Suo libro sembra di cogliere una visione diversa e centrata sulla relazione tra le persone in ciò che le unisce prima ancora di ciò che le differenzia. Potrebbe spiegarci il Suo punto di vista?

 

Nel libro ho voluto sottolineare come, al di là di ciò che il diritto e la politica possono fare per rispondere all’istanza di giustizia emergente dalla disabilità, sia determinante il tipo di sguardo che coltiviamo sulla persona disabile e sulla persona in generale.

Leggi e scelte politiche, infatti, hanno sempre un retroterra etico e antropologico: possono esprimere e promuovere determinate concezioni della persona, della vita umana, del legame sociale rispetto ad altre.

Mentre auspichiamo per i disabili la garanzia di pari opportunità, il superamento delle discriminazioni, l’abbattimento delle barriere architettoniche, quale idea di umanità abbiamo in mente? È questo che conta.

Scegliendo di studiare la disabilità in questa prospettiva, ho inteso cogliere anche un aspetto più generale: il rapporto tra il diritto e la vulnerabilità propria di ogni essere umano. Più che sui disabili come categoria di soggetti svantaggiati, mi interessa porre l’accento sulla disabilità come paradigma della vulnerabilità umana: una vulnerabilità che ci riguarda tutti, e che ci insegna qualcosa su chi siamo.

 

 

3) Quali prospettive intravede in merito alla riflessione e al cambiamento culturale e poi giuridico sul significato di persona e quali sono a Suo avviso le basi da porre a fondamento di tale cambiamento?

 

Attribuisco un ruolo fondamentale all’educazione, alla famiglia e alla scuola. L’atteggiamento complessivo di una società sul tema dell’handicap dipende da fattori culturali prima che istituzionali, e si esprime nei nostri comportamenti abituali ben prima che nelle Commissioni parlamentari e nelle istituzioni di assistenza sociale. La maggiore o minore capacità di accogliere le persone disabili, di costruire una società non escludente e non umiliante, dipende dalla mentalità diffusa che i nostri comportamenti rispecchiano e alimentano, dai valori che coltiviamo e condividiamo, dai sentimenti morali che promuoviamo nei giovani. Dunque, non occorre pensare necessariamente e in primo luogo a grandi progetti, risorse, finanziamenti. Tutto parte da dinamiche molto vicine a noi, che ognuno di noi è in grado in ogni momento di controllare, esercitando un giudizio, una consapevolezza critica: a cominciare dal linguaggio, da come usiamo le parole e insegniamo ai bambini a usarle; da quanto sappiamo prendere le distanze dagli stereotipi di bellezza, salute e successo veicolati dai media; da quanto siamo disposti a ridimensionare gli ideali individualistici di autonomia, indipendenza e libertà, recuperando uno sguardo più completo e più realistico sulla condizione umana, riconoscendo una piena dignità anche nella debolezza, nell’invecchiamento, nella malattia, nell’handicap, nel bisogno dell’aiuto altrui.

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