Per un’abbondanza frugale.

Discutiamo la proposta di Latouche
Silvio Minnetti

Decrescita: avere meno per stare meglio? Nel suo ultimo libro, Per un’abbondanza frugale[1], Serge Latouche propone la “benefica rinuncia” al consumismo, indica uno nuovo stile di vita basato sulla sobrietà e sull’otium. L’utopia di Latouche non sempre convince ma la proposta “antropologica” di una frugalità gioiosa, di un rifiuto consapevole di uno sviluppo che distrugge il pianeta è affascinante. È la proposta di una “decrescita serena”, che non si attarda a considerare gli attuali conflitti nella distribuzione del reddito. Latouche invita chiaramente a ricostruire il legame sociale sulla filia, sull’agape cristiana, sull’amicizia aristotelica. In questo il suo discorso interseca la tradizione dell’economia civile da Antonio Genovesi a Stefano Zamagni e Luigino Bruni. Le ralazioni sociali infatti non sono fondate solo sull’interesse in quanto chiedono sempre amore, dono, benevolenza, cosa peraltro ben nota ad Adam Smith.Gli uomini concepiscono beni comuni ed hanno un istinto alla cooperazione.

Una vita fondata su tale concezione, che implica una sobrietà non punitiva, richiede una educazione ed una informazione capillari. La singola persona, capace di riflessione critica e di percezione responsabile del limite, deve accogliere questa prospettiva senza imposizione dall’alto, senza una dittatura di illuminati dopo la catastrofe. In Italia, in particolare, oltre alla tradizione dell’economia civile, ci si può collegare alla economia della felicità di Stefano Bartolini.

Latouche propone una vita sociale soddisfacente basata sulla ricchezza delle relazioni nel lavoro, in famiglia, nel tempo libero: «poter coltivare le amicizie, sviluppare i propri talenti creativi e insomma tutta una serie di beni relazionali per i quali occorre soprattutto una precondizione: l’otium, il tempo libero. Ecco una diversa felicità ha bisogno soprattutto di tempo a disposizione, il quale non costa nulla e non distrugge risorse naturali: lavorare meno, lavorare tutti» («Il Messaggero», 8 febbraio 2012).

«La decrescita solleva interrogativi che non hanno risposte preconfezionate»[2]. Il testo analizza malintesi e controversie sulla decrescita, nella consapevolezza che si tratta di una “utopia concreta”. «Il fallimento dell’obiettivo della felicità per tutti promessa dalla società della crescita obbliga ad interrogarsi sul contenuto della promessa stessa. Il sovraconsumo materiale lascia una parte sempre più consistente della popolazione nella penuria e non assicura neppure un vero benessere agli altri. La ridefinizione della felicità come “abbondanza frugale” in una “società solidale”: questa è la rottura proposta dal progetto della decrescita. Una rottura che presuppone che si esca dal circolo infernale della creazione illimitata dei bisogni e dei prodotti, come pure dalla frustrazione crescente che questa genera, e contemporaneamente che si compensi attraverso la convivialità l’egoismo derivante da un individualismo ridotto ad una massificazione uniformizzante»[3]. In queste poche righe l’essenza del pensiero dell’Autore.

Può questa teoria risolvere i problemi immediati dei nostri Stati, come quelli della Grecia? Serpeggiano molti dubbi, malintesi e controversie. C’è confusione, ad esempio, tra crescita negativa dopo il 2008 e progetto della decrescita, che assomiglia invece allo “stato stazionario” di John Stuart Mill e alla “crescita zero” del Club di Roma. Viene messa in discussione la fede cieca verso la scienza occidentale e la convinzione della onnipotenza della tecnica, propagandata soprattutto dalla lobby dell’industria. Si propone una moratoria dell’innovazione tecnico-scientifica ma non si è contro il progresso. Si incoraggia la chimica verde piuttosto che le molecole tossiche, la medicina ambientale invece del “genetico” ad ogni costo, l’agroecologia in luogo dell’Ogm. Il progetto di una società autonoma e frugale non è un ritorno alla candela, insomma. Bisogna decidere fino a che punto bisogna ridurre il consumo di risorse naturali. «Perché non reclamare il progresso della bellezza delle città e dei paesaggi, il progresso della purezza delle falde freatiche che forniscono l’acqua potabile, della trasparenza dei fiumi e della salute degli oceani? Perché non esigere un miglioramento dell’aria che respiriamo e del sapore degli alimenti che mangiamo? Moltissimi progressi sono ancora necessari per lottare contro l’invasione del rumore, per aumentare gli spazi verdi, preservare la fauna e la flora selvatiche e salvare il patrimonio naturale e culturale dell’umanità, senza parlare dei progressi che si devono fare nella democrazia»[4].

Il progetto della decrescita non significa il ritorno ad un ordine patriarcale comunitario, ma riterritorializzazione per ritrovare un’organizzazione che non superi l’impronta ecologica sostenibile per il pianeta, come le bioregioni in cui promuovere relazioni orizzontali contro la verticalità della società economica e politica attuale, la “persona” di Emmanuel Mounier versus un individualismo esasperato. Si tratta della costruzione concreta di una società economa di abbondanza frugale. Peraltro la crescita del Pil negli ultimi “Trenta anni Pietosi” non ha assicurato l’eliminazione della povertà al Nord ma ha visto il mantenimento di una società della crescita senza sviluppo, condannati alla combinazione più iniqua immaginabile di spreco e di penuria.

Come risolvere con la decrescita i problemi della povertà nei Paesi del Sud? La decrescita al Nord è una condizione per l’affermarsi di qualsiasi forma di alternativa al Sud, rompendo con la dipendenza economica e culturale data dalla occidentalizzazione. Si tratta di ricostruire o ritrovare nuove culture per l’obiettivo della “vita buona”. Nei confronti poi dei nuovi giganti tra i Paesi industrializzati, Cina, India e Brasile, è necessario dimostrare che il modello è desiderabile per ridurre l’effetto serra e salvare l’umanità da un futuro funesto, attraverso autolimitazione e moderazione, canoni presenti nei primi due Paesi mediante il confucianesimo, il buddismo e l’induismo, perfettamente compatibili con la cultura della decrescita.

Quale sarà il soggetto portatore del progetto della decrescita in una umanità globalizzata? Non una classe sociale particolare ma tutti gli individui in quanto persone singole e concrete. Non sarà un partito politico a rischio di caduta nella politica politicante, ma saranno gli attori politici delle realtà sociali. Sarà un lavoro di autotrasformazione in profondità della società e dei cittadini che porterà oltre la concezione industrialista e predatoria della guerra alla natura.

In conclusione, quali sono gli spinosi problemi che abbiamo di fronte a noi nella transizione da una società dei consumi e dello spreco sfrenati a quella caratterizzata dall’abbondanza frugale? Come risolvere il problema del debito pubblico, delle pensioni e della disoccupazione, della democrazia di base e della governance mondiale? Serve una “conversione” di massa per ri-incantare il mondo e accendere il sogno giovanile, in particolare, attraverso ingredienti di natura spirituale, poesia, estetica ed utopia concreta, impegno, convinzioni e fede di ciascuno. «La scommessa della decrescita è anche una scommessa sulla maturità dei nostri contemporanei, sulla loro capacità di scoprire che c’è un altro mondo dentro quello in cui viviamo: è una scommessa arrischiata ma necessaria, e che vale la pena di essere accettata»[5].

 

 

Prof. Silvio Minnetti, Direttore della Scuola di partecipazione del Movimento politico per l’unità, Macerata



[1] S. Latouche, Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2012.

[2] Ibid., p. 7.

[3] Ibid., p. 13.

[4] Ibid., p. 52

[5] Ibid., p. 138

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