Per una giustizia di comunità

Le riforme necessarie dell’intero sistema penitenziario, dentro e soprattutto oltre il carcere. L’esigenza di un radicale cambiamento di prospettiva sociale nell’intervista a Salvatore Nasca, a partire da circa 40 anni di esperienza dirigenziale sul campo. (Prima parte).
Archivio manifestazione davanti al carcere Regina Coeli di Roma. Foto: Cristiano Laruffa/LaPresse

L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, nel suo primo anno di attività, ha preso delle decisioni di carattere securitario e repressivo con il decreto Caivano e prima ancora con il decreto Cutro fino all’allungamento dei tempi di detenzione dei migranti nei Cpr.

Allo stesso tempo continuano ad emergere i seri problemi che affliggono il sistema carcerario italiano come dimostra il caso di Torino sulle morte di due detenute per suicidio e l’aggressione verso il personale della polizia penitenziaria.

La recente morte, per malattia, di Matteo Messina Denaro, arrestato in circostanze che lasciano dubbi sulla sua latitanza, pone, inoltre, la questione della necessità di continuare ad adottare un regime detentivo speciale (cd 41 bis) per i boss mafiosi che in carcere arrivano spesso troppo tardi, in forza del sistema di collusioni e protezioni che li accompagna nella loro attività criminale.

Chiediamo perciò a Salvatore Nasca, per 38 anni impegnato nel mondo penitenziario con il ruolo di dirigente esecuzione penale esterna presso diversi uffici (Livorno, Firenze, Palermo, Firenze Siena, Dipartimenti Amministrazione Penitenziaria e Giustizia Minorile e di Comunità) di offrire elementi per una valutazione complessiva della pena in Italia con alcune domande.

Ogni volta si discute inevitabilmente sulla necessità di accompagnare la repressione del crimine con la prevenzione. Si tratta di retorica oppure mancano proprio risorse e strumenti preventivi del crimine?
La repressione del crimine è ancora oggi, di fatto, una necessità, nonostante da tempo si discuta sulla possibilità di superarla. E da sempre si ragiona sull’importanza della prevenzione.

La questione non è semplice. Intanto preferirei non usare il termine repressione ma contrasto e punizione: la criminalità va infatti prima di tutto combattuta efficacemente sul territorio, o meglio nei territori, e poi, quando si concretizza, punita altrettanto efficacemente. E punizione efficace non significa repressiva, anche se ovviamente in alcuni casi la severità e la rigidità sono necessarie, ma che risponda alle sue finalità (rieducazione – reinserimento – responsabilizzazione – riparazione). E, di conseguenza, solo in alcuni rari casi la pena carcere è la più adeguata, e andrebbe superata una volta per tutte l’equazione pena uguale carcere, come ancora è nell’immaginario collettivo. Tra l’altro le forme esterne di pena (misure alternative, sanzioni sostitutive, ecc.) sono già da tempo presenti, ormai anche in Italia, costano molto meno e soprattutto riducono la recidiva e favoriscono recupero e responsabilizzazione molto più del carcere.

E per la prevenzione cosa occorre fare?
Quanto alla prevenzione, potrebbe – dovrebbe non essere solo retorica che si tira fuori dopo qualche evento particolare ma impegno quotidiano di tutte le istituzioni e di tutta la comunità: le strade ci sono e da più parti sono anche sperimentate, ma certamente c’è bisogno di risorse e ancora di più di una visione e di un piano di azione complessivo e integrato da attuare nelle e con le comunità in tutte le sue componenti, come ha magistralmente detto papa Francesco parlando di reinserimento dei detenuti: «Il reinserimento comincia prima, fuori, nelle vie della città, creando un sistema di salute sociale, che cerchi di non ammalarsi inquinando le relazioni nel quartiere, nelle scuole, nelle vie».

È una prospettiva molto esigente e globale…
Certo ma la prevenzione è proprio questo: non drammatizzare demagogicamente l’allarme sociale, non alimentare sfiducia – isolamento – paura e non centrare tutto su controllo e repressione come qualcuno spinge a fare (anche con ronde, ecc.), ma promuovere al contrario contesti sociali in cui ci si interessi l’uno dell’altro e si educhi, prima di tutto con la testimonianza personale, alla legalità e ad essere ciascuno e insieme responsabili delle proprie scelte e di quelle della comunità: le scuole, le famiglie, i circoli, le parrocchie, i quartieri hanno quindi un ruolo centrale, accanto ovviamente alle istituzioni che dovrebbero puntare a mettere insieme legalità, sicurezza e coesione sociale e ad investire decisamente nelle comunità locali. Su questo c’è ancora tanto da fare, anche se ci sono esperienze positive che andrebbero valorizzate e condivise.

È giustificato il numero attuale dei detenuti in carcere?
Se non consideriamo i detenuti in carcere per reati legati direttamente o indirettamente alla criminalità organizzata, che non sono tanti, ed i pochissimi cosiddetti “colletti bianchi” (detenuti per reati di corruzione, peculato, ecc.), buona parte dei detenuti sono o tossico-alcol-dipendenti, o stranieri, o con problematiche psichiatriche o con doppia o tripla diagnosi, o con forti problematiche economiche, sociali o familiari, situazioni perciò che non possono essere risolte ma neppure adeguatamente affrontate in carcere, e che rimandano invece al vuoto o meglio alle carenze dei nostri contesti sociali e del nostro sistema di Welfare.

Di conseguenza, se ci fosse un contesto istituzionale e sociale più attento alle più drammatiche problematiche sociali, più coeso e solidale ma anche più educante e responsabilizzante, molti detenuti potrebbero avere trovato e trovare risposte e sostegni alle proprie esigenze e quindi non essere finiti in carcere.

È tutta colpa della società come si diceva nel ‘68?
Certo che no. L’intera analisi proposta parte da una necessaria avvertenza: non voglio dire che la responsabilità dei reati sia della società e non di chi li ha commessi, ma che la responsabilità personale è quasi sempre condizionata dall’ambiente in cui si vive: su questo si potrebbero fare tanti discorsi ma mi limito a citare papa Francesco che nel 2013, parlando dei detenuti, disse: «Io mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro».

Cosa ostacola l’applicazione di misure alternative? Si può risolvere tutto costruendo nuove carceri?
Le misure alternative, o meglio le sanzioni e misure di comunità, sono già adesso una realtà molto forte, se solo consideriamo che di fronte a 58mila detenuti, tra imputati e condannati, al 31 dicembre 2022 gli Uffici Esecuzione penale esterna seguivano sul territorio più di 73mila persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria (Misure alternative, Messa alla prova, Sanzioni sostitutive, ecc.).

I numeri tendono a crescere e potrebbero crescere ancora di più perché c’è ancora tanta strada da fare per ampliare e rendere più attuabili tali misure, in particolare se ci fossero meno convegni e disquisizioni di politici e intellettuali sul carcere e più investimenti seri in questa direzione e se le comunità locali fossero meno deleganti e chiuse e più accoglienti e responsabili. Per esempio si spendono “senza problemi” 150€ al giorno circa per ogni detenuto e nulla quando la persona sconta la pena fuori dal carcere, come se solo perché non si è in carcere non ci fossero problemi ed esigenze, quando al contrario i problemi e le esigenze sono per tanti più drammatici fuori che dentro, e basterebbe molto meno di quanto “costa” un detenuto in carcere per attivare progetti seri di inclusione, responsabilizzazione e riparazione. Ed invece gli Uffici esecuzione penale esterna si trovano a seguire, nonostante una gravissima carenza di personale e tante resistenze e chiusure, quasi 80mila persone, in situazioni spesso problematiche e pericolose, ed anche a impiegare molto tempo ed energie per la ricerca continua di risorse, stabilendo reti positive con Enti Locali, Servizi, Terzo Settore, Cooperative, ecc., e riuscendo così a favorire reinserimento e responsabilizzazione di migliaia di persone. Con esiti estremamente positivi non solo in termini di inserimento positivo nella società, ma anche in termini di recidiva (del 20% circa se si sconta la pena in misura alternativa, a fronte di un 70% se la si sconta in carcere) e quindi anche di maggiore sicurezza sociale.

Di fatto le carceri restano sovraffollate. Per qualcuno la soluzione consiste nella costruzione di nuovi istituti di pena…
È una prospettiva che non condivido in base alla mia esperienza sul campo. Non si risolve il problema del sovraffollamento costruendo nuove carceri ma ripensando la logica della pena, perché è assurdo che in Italia la pena primaria sia ancora il carcere e le altre forme siano solo alternative o sostitutive, e quindi applicando il principio che sancisce la privazione della libertà come extrema ratio. Per tanti comportamenti irregolari si potrebbero – dovrebbero prevedere sanzioni amministrative (spesso più veloci, incisive ed efficaci del carcere) e sanzioni penali non detentive che favoriscano percorsi sia terapeutici sia di giustizia riparativa, che prevedono un rapporto con la vittima e/o con la collettività (attività gratuite a favore della collettività, ecc.). Occorre percorrere sempre più decisamente questa strada, su cui si sta già lavorando da anni con successo, di una seria ri-educazione e responsabilizzazione.

E poi se i detenuti avessero più occasioni serie di lavoro e di attività formative, culturali e aggregative da svolgere sia all’interno sia all’esterno, le carceri sarebbero anche in questo modo più vuote. Inoltre, più di un quarto dei detenuti sono imputati o appellanti, e una politica penale seria potrebbe ridurre drasticamente il loro numero, riducendo non tanto la custodia cautelare (come le recenti normative ipergarantiste stanno facendo) quanto la durata dei processi, in modo da arrivare presto a condanne definitive (che poi in buon numero potrebbero essere scontate fuori dal carcere).

Quindi altro che nuove carceri! Piuttosto una nuova cultura e una nuova pratica della pena, una pena veloce, efficace, in gran parte non in carcere ma nella e con la comunità.

 

FINE PRIMA PARTE

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