Per una cultura della mediazione

Sergio Barbaro

In seguito all’articolo di Sergio Barbaro “La media-conciliazione: mettersi d’accordo senza il processo”, abbiamo ricevuto in Redazione una lettera di Anna Russo, della “Associazione Culturale Vivinsieme”, che non entrava nel merito dell’articolo, ma segnalava l’esistenza di un cospicuo materiale informativo in difesa della mediazione civile, presso il sito del Ministero della Giustizia, al quale rimandiamo: www.giustizia.it.

Sergio Barbaro, dal canto suo, ha inviato questo nuovo contributo che pubblichiamo di seguito.

 

 

 

Mi si chiede con queste righe di approfondire le considerazioni sulla mediazione civile e commerciale esposte con l’articolo pubblicato su «NU News on-line» lo scorso 1 febbraio, anche per condividere alcune riflessioni fatte pervenire dai lettori.

In primis è necessario partire dall’utilizzo del termine media-conciliazione che ho adoperato nel mio precedente articolo. La terminologia in questione, non vuole essere in alcun modo dispregiativa o fuorviante, ma è utilizzata anche in senso tecnico da diversi studiosi e commentatori che hanno trattato favorevolmente dell’istituto in esame[1].

In secondo luogo, come già affermato nel mio precedente intervento, il giudizio complessivo sugli scopi che il legislatore italiano ha inteso perseguire con l’introduzione dal D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28[2] in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali non può essere che positivo.

Gli scopi sono costituiti, come detto, da una parte dal tentativo di ridurre il contenzioso giudiziario e, dall’altra, dalla volontà di promuovere uno strumento che permetta di risolvere conflittualità inerenti a relazioni prevalentemente di fiducia o famigliari o/e di lunga durata evitando che la crisi di tali rapporti venga a cristallizzarsi e ad approfondirsi nel corso del giudizio. Ciò che desta alcune perplessità è il metodo con cui tali intenti sono stati perseguiti dal nostro legislatore.

Il D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28 ha difatti imposto da subito l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione in diverse e rilevanti materie. Non è sufficiente, tuttavia, a mio parere, imporre la vincolatività del tentativo di comporre amichevolmente una controversia giuridica per diffondere in Italia la cultura della mediazione come strumento alternativo di risoluzione delle controversie.

L’introduzione dell’istituto della mediazione andava accompagnata da una previa sensibilizzazione sociale e da un maggiore coinvolgimento dei soggetti destinatari di tale provvedimento.

Ritengo che, in primo luogo, per ridurre la litigiosità degli italiani sia necessario intervenire sulla formazione dei ragazzi e dei giovani, educando maggiormente nelle famiglie, nelle scuole e nelle università a valori quali la fraternità, la solidarietà e il perdono. La formazione a tali valori non può essere delegata al legislatore né imposta con legge. Un soggetto che è stato educato a tali principi sarà certamente più incline a tentare una risoluzione amichevole di una controversia giudiziaria. Un soggetto non particolarmente sensibile a tali valori, di contro, potrebbe sentire l’obbligo di tentare la mediazione della controversia, come un mero ostacolo burocratico alla piena realizzazione delle proprie ragioni.

Il grande successo che tale istituto ha avuto in altri Paesi trova le proprie ragioni, difatti, in fattori di carattere culturale e sociale.

La mediazione delle controversie civili e commerciali ha trovato, ad esempio, terreno fertile in Inghilterra. Tuttavia il sistema giudiziario inglese è notoriamente conosciuto per il numero limitato di controversie che arrivano a sentenza, in quanto la maggior parte di esse vengono definite con un accordo anche extragiudiziale tra le parti[3].

Inoltre in Inghilterra si è iniziato a parlare di risoluzione alternativa delle controversie e mediazione già a partire dagli anni Novanta, attraverso una forte e capillare sensibilizzazione della società civile su tali tematiche[4]. Dal 2001 il governo inglese ha adottato la mediazione come modalità privilegiata per il trattamento delle controversie civili in cui sono parte i ministeri[5]. È stato creato da tempo un Civil Mediation Council, organizzazione no profit, preseduta da un ex magistrato che, con il patrocinio del Ministero della Giustizia, ha la specifica funzione di promuovere la cultura della mediazione nell’opinione pubblica inglese[6]. Le norme che disciplinano il processo inglese (Civil Procedures Rules) sollecitano i giudici e gli avvocati a incoraggiare le parti a trovare una soluzione amichevole delle controversie[7]. La diffusione della pratica della mediazione è stata quindi favorita da una vasta e profonda sensibilizzazione dell’opinione pubblica inglese e della comunità giuridica.

Le stesse considerazioni possono porsi per l’ordinamento tedesco, dove la maggior parte dei processi, sia in materia civile che in materia di diritto del lavoro, si concludono con una conciliazione tra le parti, in quanto sono gli stessi magistrati che spingono fortemente perché la causa si componga amichevolmente[8]. In un contesto simile l’introduzione della mediazione costituisce il completamento di una prassi già sviluppata, diffusa e socialmente accettata.

Gli Stati Uniti, infine, costituiscono il luogo dove gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie definiti ADR (Alternative dispute resolution) sono stati concepiti e sviluppati già a partire dai primissimi anni Ottanta. Il Congresso ha emanato diverse leggi federali per consentire lo sviluppo di tali meccanismi di cui ben cinque tra il 1980 e 1998[9]. Il Dispute Resoluction Act del 1980 è la più rilevante di tali normative[10]. Con tale legge il Congresso USA ha incoraggiato gli stati, gli enti locali e le organizzazioni no profit a sviluppare meccanismi di soluzione alternativa delle controversie, efficaci, giusti, poco costosi e rapidi e ha assicurato supporto finanziario agli enti che se ne fossero fatti promotori[11]. L’Alternative Dispute Resolution Act del 1998[12], normativa emanata dal Congresso al culmine di un processo di sensibilizzazione durato quasi vent’anni, ha richiesto a tutte le corti distrettuali federali di istruire programmi di ADR e mediazione delle controversie[13].

Il largo successo di tali prassi negli USA ha radici profonde, secondo gli stessi studiosi americani[14], in primo luogo in un contesto storico culturale in cui la soluzione delle controversie fuori dalle Corti era un aspetto importante dell’etica e della prassi dei primi coloni inglesi e il ricorso al processo era scoraggiato in favore della mediazione, all’interno della comunità, del conflitto[15]. Tale diffusione ha trovato il suo fondamento in una collaborazione che si è perfezionata nel tempo tra legislatore e comunità giuridica, nella quale i metodi di risoluzione delle controversie sono stati promossi con l’ausilio e la piena partecipazione di avvocati e magistrati.

Le stesse considerazioni non si possono svolgere per l’Italia dove il tentativo di mediazione è stato da subito imposto e non incoraggiato; dove gli operatori giuridici sono stati scarsamente coinvolti nella formulazione e applicazione della normativa e per questo motivo hanno per lo più finito per sentire, in particolare gli avvocati, l’obbligatoriètà della mediazione come una forma di esautorazione dalle proprie competenze e professionalità.

Forse diverso è l’atteggiamento dei giovani avvocati che vedono la mediazione come un’opportunità, un terreno vergine e inesplorato che potrebbe aprire nuovi spazi e orizzonti professionali, in un contesto, quello della professione forense, sempre più povero di occasioni di lavoro per le nuove generazioni.

In conclusione ribadisco che gli intenti promossi dal legislatore italiano con l’introduzione del quadro normativo in materia di mediazione civile e commerciale sono, senza dubbio, condivisibili, ma che lo sviluppo di tali metodi alternativi di soluzione delle controversie dovrebbe essere sostenuto da una previa sensibilizzazione sociale e culturale ai valori sottesi a tali strumenti e da una maggiore coinvolgimento della comunità giuridica.

 



[1] Utilizzano il termine media-conciliazione tra i tanti commentatori: E. Bernini, Conciliazione fallita: effetti della condotta sulle parti, 1«Il Sole 24 Ore» – Ventiquattrore Avvocato Edizione Giugno 2011, n. 6 p. 83; C. Ponti, Organismi per la conciliazione: formazione, requisiti, criticità, «Il Sole 24 Ore» – Ventiquattrore Avvocato Edizione Aprile 2011 – Monografia, n. 1 p. 30.

[2] Pubblicato in «Gazzetta Ufficiale1» n. 53 del 5. 3.2010.

[3] Sono difatti pochissimi i processi civili inglesi che arrivano alla fase dibattimentale (definita Trial), intorno all’1,5%, in quanto la maggior parte di essi si esauriscono nella fase predibattimentale (definita Pretrial) attraverso il perfezionamento di accordi tra le parti in causa. Per un approfondimento: V. Varano-V. Barsotti, La tradizione giuridica occidentale, Torino, 2006, pp. 291ss.

[4] N. Andrews, ADR in Inghilterra, in V. Varano (a cura di) L’altra Giustizia, Milano, 2007, pp.18ss.

[5] Ibid., p. 19.

[6] Si veda il sito dell’ente a http://www.civilmediation.org/.

[7] Per un approfondimento si veda: N. Andrews, ADR in Inghilterra, cit., p. 20.

[8] R. Stüner, La risoluzione alternative delle controversie in Germania, in  V. Varano (a cura di) L’altra Giustizia, cit., pp. 256ss.

[9] Il Dispute Resolution Act del 1980, il Judicial Improvements and Access to Justice Act del 1988, il Civil Justice Reform Act del 1990, l’Administrative Dispute Resolution Act del 1990 e l’ Alternative Dispute Resolution Act del 1998.

[10] Dispute Resolution Act of 1980, Pub. L. No.96-190,94 Stat. 17(1980).

[11] Si veda: O. G. Chase, I metodi alternativi di soluzione delle controversie e la cultura del processo: il caso degli Stati Uniti D’America, in  V. Varano (a cura di), L’altra Giustizia, cit., p. 136.

[12] Alternative Dispute Resolution Act of 1998, Pub. L.No. 105-315, § 2 (1998).

[13] O. G. Chase, I metodi alternativi di soluzione delle controversie e la cultura del processo: il caso degli Stati Uniti D’America, cit., p. 137.

[14] J. S. Auerbach, Justice Without Law, New York and Oxford, Oxford University Press, 1983, pp. 21ss. 

[15] Ibid., p. 23.

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