Per quale strada

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Sono stati anni belli e intensi, di crescita e di continua ginnastica dell’anima. Ho conosciuto meglio i miei limiti e le mie capacità, che per un atleta è fondamentale. Ho imparato a correre, a cadere, a rialzarmi, a scattare, a staccare, a saltare. E a forza di provare e riprovare, di alzare l’asticella di un centimetro alla volta, un giorno, con il vento a favore, ho fatto il grande salto, che poi è stato un volo, perché da allora non sono più sceso. Il volo ha fatto scalo in una piccola città sul monte, ma quella non è già più terra, anche se non è ancora definitivamente cielo. È un luogo di frontiera. Lì ho trascorso due anni che nella mia anima sono impressi come un momento: di eternità. Questo sarebbe un capitolo a parte da scrivere, se non addirittura un libro. Come un soldato che prima di partire per la guerra passa un periodo ad addestrarsi, conoscere le armi, imparare le tecniche, studiare le strategie, per poi ritrovarsi un giorno sul fronte pronto a combattere (paragone forse poco felice). Oppure, come un innamorato che scappa con la sua amata in cima a una montagna sperduta, in capo al mondo, lontano da tutti e tutto, per rivelarle, finalmente soli, il suo infinito amore (questo va già meglio, anche se è un po’ troppo romantico). Poi l’aereo è ripartito in direzione nord-est…. Oggi non scriverei queste cose. Non perché non siano vere. Sono vere. E sono intrise di quella bella ingenuità che accompagna le grandi passioni della vita. Ingenuità che col tempo perdiamo, purtroppo, a differenza degli illusi eterni e dei santi. Oggi scriverei le pagine che seguono, pagine che dicono, in modo diverso, lo stesso. Chiamerei le cose per nome, con maggiore esattezza, senza parafrasi, né allusioni. Innamorarsi Si avvicinò un amico con fare complice (questa volta non dirò i nomi per discrezione). Mi comunicò che sua cugina si era innamorata di me e che, ad un mio minimo gesto, si sarebbe arresa. La cosa mi lasciò alquanto perplesso. In quell’istante prendevo atto della sua esistenza e dei suoi sentimenti verso di me. Come ci si può innamorare di una persona che non si conosce neanche? L’amico aggiunse che dovevo sbrigarmi, perché sua cugina era innamorata contemporaneamente anche di un altro ragazzo che mi assomigliava moltissimo. Questa affermazione mi sconvolse ancor più della precedente. Cominciai a riflettere sul significato della parola innamorarsi. Avevo sedici anni. Mi capitò in seguito di provare qualcosa per un’amica di qualche anno più grande, una ragazza carina e simpatica. Diceva di essersi innamorata di me. Sembrava tutto semplice, ma non lo era affatto. Provavo un certo imbarazzo nei suoi confronti. Il mio era un sentimento ancora acerbo. Per un po’ di tempo le girai intorno, cercando di non avvicinarmi troppo. Se mi capitava di avvicinarmi, ne rifuggivo, come respinto da un campo elettrico. In realtà quel campo elettrico ero io stesso a crearlo. Attrazione e repulsione. Le oscillazioni di campo durarono fino a quando la mia amica mi mandò a dire di decidermi, perché aveva un altro pretendente e si sarebbe messa insieme con il primo che le avesse dichiarato il suo amore. Non ebbi dubbi sul da farsi. Lasciai che il mio rivale vincesse una partita che rinunciavo in partenza a giocare. Mi ritrovai nuovamente a pensare che, per alcuni miei coetanei, innamorarsi non fosse un’esperienza molto più profonda di una gita con gli amici, un concerto del cantante preferito, una buona dose di emozione e avventura. Tuttavia, non mi diedi per vinto. Continuai a inseguire il mio ideale di ragazza per la quale, unicamente, la parola amore non sarebbe stata pronunciata invano, innamorandomi sistematicamente di ragazze diverse da quelle che si innamoravano di me, per lo più ragazze irraggiungibili, se non addirittura astratte. La verità è – ma questo lo si capisce in genere più tardi – che a sedici anni, quando si cerca con tutte le forze dell’anima un amore grande, appassionato, assoluto, si è molto vicini alla verità.Ma questo lo si capisce dopo. Io l’ho capito a diciotto anni, quando mi si andò a conficcare nel cuore una frase di Chiara Lubich: Non accontentatevi di una vita mediocre. Date tutto. Chiara parlava a una sala di circa duemila giovani (particolare irrilevante che non toglie niente all’intimità di quel discorso tra me e lei). Attraversando la mediazione della ragione, le sue parole colpirono il centro esatto dei miei desideri, delle mie aspirazioni, dei miei sogni. In una parola: il cuore. Capii in un istante che, per quanto la mia vita non fosse priva di donazione e altruismo, non sarebbe stata altro che mediocrità ben confezionata se non avessi dato tutto, dal momento che sentivo di poterlo fare. A chi? Non bisognava neanche chiederselo. A Dio. Quel giorno capii cosa significa avere una vocazione. Lo capii, scoprendo la mia. Un imperativo, dolce e risoluto: Vieni e seguimi. Una domanda, semplice e vertiginosa: Mi ami tu più di costoro?. Capii che la vocazione ha a che fare con l’amore, perché solo un innamorato si gioca tutto per la persona amata. Avevo trovato, dunque. Non era una ragazza, più bella, intelligente, affascinante delle altre. Non era un amore. Era Dio: l’Amore. Il più delle volte, quel cuore adolescente, eternamente innamorato, appassionato e dolente, cerca in fondo, senza saperlo, Dio. Fateglielo conoscere, Dio, al vostro cuore, ad ogni cuore, e lui lo amerà.

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