Pavonazzetto & C.

“Mamma, hai finito?”. “Ancora un po’ di pazienza, Stefy. Non ci succede tutti giorni di venire a Roma. Da una vita avevo voglia di disegnare quel mosaico”. “Ma io m’annoio!”. “Possibile che non trovi nulla d’interessante? Questo bellissimo pavimento, ad esempio… Perché non ti diverti a contarne le tessere?”. Mentre la mamma, professoressa di storia dell’arte, copiava alcune figure del mosaico che impreziosiva l’abside dell’antica basilica, l’attenzione di Stefano si concentrò sul pavimento: tutto un intarsio di marmi d’ogni tipo e colore, simile a un magnifico tappeto, formato da minuscole tessere, forse migliaia. Ce n’erano a forma di quadrato, triangolo, ottagono, rombo, e formavano riquadri, intrecci complicati, fasce serpeggianti che si avvitavano attorno a grandi dischi… Per un po’ il bambino si divertì a percorrere in lungo e in largo quella specie di labirinto i cui sentieri sembravano invitare a un viaggio misterioso. La mamma, che lo seguiva con la coda nell’occhio, azzardò una spiegazione artistica: “Bello, vero? È arte medievale cosmatesca. I cosmati, sai, gli artigiani che hanno realizzato questo tipo di pavimenti, riutilizzavano i marmi degli edifici della Roma imperiale caduti in rovina…”. “Che peccato! Allora qui c’è tutta la Roma antica “tritata”?” esclamò l’altro con una certa delusione. “Che idea! – rise la mamma -. Beh, in un certo senso sì. È scomparsa nel tritatutto che sono il tempo e gli uomini, ma qualcosa di essa è riapparsa, trasformata, e con un’altra bellezza. Era un discorso troppo serio per Stefano, che tornò a girellare fra le navate della basilica; finché, stanco, andò a sedersi accanto alla mamma. Per un po’ osservò i progressi del suo disegno, poi si appoggiò allo schienale della panca e scivolò in un dolce sonno. D’un tratto fu svegliato da un coro flebile di vocine. Guardò verso la mamma… e s’accorse che era lei ora a dormire, con la matita e il taccuino ancora fra le dita. Quelle vocine si ripeterono. Eppure in quel momento nella basilica non c’era nessuno. La cosa più strana era che sembrava provenissero dal pavimento… “Ehi, non ci senti? Siamo noi…”. “Noi chi?” esclamò il bambino, inginocchiandosi per sentire meglio. “Pavonazzetto, e parliamo al plurale perché siamo tanti pezzettini, noi che eravamo tra i marmi più ricercati dell’antichità. Siamo questi bianchi con venature e macchie rossastre. “E chi vi ha ridotto così?”. “Proprio quei cosmati, specialisti nel “tritare”, come tu dicevi, l’antica Roma. E pensare che un tempo adornavamo il Tempio della Concordia…”. “Ehi, lasciate parlare pure noi” subentrò un altro coro. “Stavolta chi siete?” interrogò Stefano, che stava prendendoci gusto. “Siamo Porfido Rosso, queste altre tessere color rosso cupo punteggiato di bianco… Se Pavonazzetto si vanta di provenire da un tempio, noi invece avevamo l’onore di rivestire i palazzi imperiali sul Palatino. “Cosa dovrei dire io, allora?” si fece sentire una voce isolata piuttosto sprezzante. “E tu, come mai parli da solo?” domandò Stefano, cercando di individuare il marmo di provenienza. “Per forza, sono un pezzo unico, e quindi il più prezioso di tutti: mi chiamo Serpentino Verde e mi trovo proprio qui sotto i tuoi occhi, in mezzo a questa losanga. Sono un marmo così raro che…”. “Non dargli retta a quel presuntuoso!”, s’intromise allegramente un terzo coro, in rappresentanza del famoso marmo Cipollino. Ad una ad una, tutte le varietà di marmo utilizzate nel pavimento costrinsero Stefano ad ascoltare la loro storia, finché la sua testa fu piena di nomi strani e fantasiosi come Fior di Pesco, Granito Tigrato, Portasanta, Broccatello, Giallo Antico, Lumachella Nera e così via. Provenivano dal Nordafrica, dall’Egitto, dalla Grecia, dall’Asia Minore e da tanti altri posti di cui lui non aveva mai sentito parlare in tv. Ognuno voleva dire la sua, spiegando orgoglioso come aveva adornato chi il Teatro di Balbo, chi le Terme di Tito, chi la villa di Lucullo, chi il santuario di Serapide… Ognuno decantava la sua preziosità, le sue venature, i suoi colori: ce n’erano di rossicci, giallastri, verdognoli, bigi, azzurrini, bruni, d’un rosa carnicino, d’un violetto ametista… A onde, a occhi, a nuvole. Screziati, chiazzati, picchiettati. E ognuno parlava con nostalgia dei bei tempi di una volta. “Perché vi lamentate? – li interruppe Stefano – Certo, adesso è un’altra cosa. Ma dovreste esser contenti di abbellire questa basilica che da tutto il mondo vengono ad ammirare”. “Ce lo dici per consolarci…” fu la risposta dubbiosa di Breccia di Aleppo. “Ma no, sul serio! Voi non ve ne rendete conto, ma dal mio punto di vista giuro che così, nell’insieme, fate un figurone”. E ricordando le parole della mamma: “È un’altra bellezza…” avrebbe voluto aggiungere, quando si sentì scuotere e… aprì gli occhi. “Sveglia, Stefy, è ora di andare!”. Era lei, che gli sorrideva: “Si vede che eri stanco e ti sei addormentato… “. “Ma se eri tu che dormivi!” protestò l’altro. “Che fantasia!… Dai, spicciati!”. Stefano si fregò gli occhi, come uno che effettivamente si risveglia, e guardandosi intorno: “Hai sentito Cipollino, Palombino, Breccia Corallina?… “. “Cosa dici? Dove hai letto questi nomi?” cascò dalle nuvole la mamma. E pensierosa, assieme a lui uscì dalla basilica.

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