Patrick Zaki, Bologna e la difesa di tutti i senza volto della storia

Un’intera città ha guidato la campagna per la liberazione del giovane ricercatore egiziano condannato per il suo impegno a favore dei diritti umani. La necessità di continuare, come ha dichiarato Zaki, nel sostegno alle migliaia di dissidenti ancora in carcere. La questione centrale della fornitura di armi e della qualità degli storici rapporti economici con l’Egitto
Patrick Zaki a Bologna dopo la liberazione. Foto La Presse. Da destra il rettore Giovanni Molari la professoressa Rita Monticelli e il sindaco Matteo Lepore

La liberazione dal carcere di Patrick Zaki è una bella notizia perché frutto di una mobilitazione diffusa non solo in Italia contro l’arresto arbitrario e la condanna penale del giovane attivista egiziano. Come ha messo bene in evidenza Bruno Cantamessa su cittanuova.it non si può, soprattutto, ignorare il lavoro pressante della società civile egiziana presente e attiva in un Paese che detiene in prigione almeno 60 mila dissidenti politici.

Zaki è uscito dall’anonimato di questa massa senza volto grazie all’appartenenza alla comunità accademica dell’università di Bologna dove ha da poco discusso, collegandosi via web lo scorso 5 luglio, la sua tesi di laurea magistrale in letterature moderne comparate post coloniali.  Una sessione pubblica di laurea che si è trasformata in un ulteriore evento a favore della libertà d’opinione del giovane studente che ha dovuto scontare 22 mesi di carcerazione preventiva per un articolo pubblicato su un sito web libanese a proposito della violazioni subite dai cristiani copti in Egitto (il testo originale è accessibile sul sito di Articolo 21).

La città di Bologna sta vivendo, di fatto, una congiuntura storica originale che le conferisce una centralità strategica. Oltre che sede della più antica università europea, l’Alma Mater, è anche storicamente espressione della sinistra di governo, dall’ex Pci fino all’attuale dirigenza del Pd ( Schlein e Bonaccini). Città emblema di Romano Prodi è ora anche la sede del presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi sempre più autorevolmente presente nel dibattito nazionale e internazionale.

Si può comprendere, quindi, la decisione del giovane attivista egiziano di festeggiare la sua liberazione a Bologna, assieme alla fidanzata Reny Iskander, anch’ella egiziana e laureata, in presenza, nella stessa sessione di Zaki, e con la quale intende tornare nel suo Paese per sposarsi e continuare a lavorare. Le prime immagini dopo la liberazione di Zaki lo ritraggono sorridente in un ambiente periferico di strade sterrate e palazzoni in costruzione che ricordano l’Italia degli anni 60.

Questa scelta della continuità nell’impegno a favore dei diritti umani dovrebbe far riflettere sull’importanza dei rapporti del nostro Paese con l’Egitto dopo la tragedia della morte di Giulio Regeni. Nel 2016 il giovane ricercatore universitario fu torturato, ucciso e ritrovato a Il Cairo in circostanze che il governo di al Sisi non ha finora aiutato ad accertare, nonostante le reiterate istanze della nostra diplomazia e la campagna di pressione di Amnesty International e dei genitori di Regeni ( sul suo  viso ho visto tutto il dolore del mondo, ha detto la madre di Giulio)

Eppure l’Italia ha svolto un ruolo significativo nel secondo dopoguerra con il sostegno ai movimenti di liberazione nazionale del Nord Africa, dall’Egitto di Nasser all’Algeria, a partire dalla politica energetica dell’Eni di Enrico Mattei in contrasto con gli interessi delle grandi società petrolifere occidentali. Un disegno strategico che è stato pagato duramente (si pensi alla stessa morte di Mattei) ma che ha portato anche recentemente ad ottenere l’esclusiva dell’Eni per l’estrazione del gas dal gigantesco giacimento di Zhor scoperto nel 2015 all’interno delle acque territoriali egiziane del Mar Mediterraneo. Una presenza costante della nostra maggiore azienda a controllo pubblico, e di tutto il suo indotto, in un’area segnata da forte instabilità, rivolte popolari, colpi di stato, conflitti regionali e penetrazione dell’estremismo islamista.

Il regime del generale al Sisi, arrivato al potere nel 2014 dopo aver deposto il leader dei “Fratelli musulmani”, si segnala in particolare per aver dato un forte impulso ad una politica di riarmo, tanto da porre l’Egitto al vertice mondiale dei Paesi acquirenti. Come riporta Egypt Wide, iniziativa italo egiziana di attivisti e ricercatori per i diritti umani e le libertà civili, secondo il database del Sipri di Stoccolma, «l’importazione aggregata di armi nel periodo 2016-2020 ha fatto dell’Egitto il terzo importatore di materiali d’armamento al mondo, dopo Arabia Saudita e India».

Si comprende, perciò, la decisione dell’Italia nel 2021 di dirottare verso Il Cairo due fregate Fremm prodotte da Fincantieri, destinate originariamente alla Marina militare italiana. Una scelta dettata dall’opportunità di poter competere con la Francia nell’ottenere maggiori commesse militari già annunciate dall’Egitto. Cfr articolo su cittanuova.it

Egypt Wide, inoltre, nel giugno 2023, ha denunciato nel dettaglio la copiosa fornitura all’Egitto delle cosiddette armi leggere (mitragliatori e fucili d’assalto compresi) da parte delle imprese italiane per il periodo 2013-2021.

Secondo l’organizzazione umanitaria, il trasferimento dei sistemi d’arma doveva essere interrotto in coerenza con «le conclusioni del Consiglio d’Europa dell’agosto 2013 in cui i Paesi membri dell’UE hanno concordato una sospensione delle forniture di armi all’Egitto alla luce delle gravi violazioni dei diritti umani, e in aperta violazione della legge italiana sul commercio di armi (L.1990, N. 185), nonché del quadro normativo europeo sull’esportazione di armi (Posizione comune 2008/944/PESC)».

Queste a altre simili istanze si scontrano con la prevalente concezione di un realismo politico che giustifica la presenza in questo settore di mercato non solo per battere la forte concorrenza esistente, ma anche per la pretesa possibilità di incidere sulle scelte di politica internazionali del Paese acquirente. E questo nonostante il fatto che, ad esempio, nel caos libico post 2011, l’Egitto sia uno dei sostenitori del generale Haftar che controlla la Cirenaica in lotta contro il governo di Tripoli, riconosciuto dall’Italia.

In questo marasma, la buona notizia da cogliere è senz’altro la crescita, nonostante tutto, della società civile disposta ad esporsi nella difesa dei diritti umani. La grazia concessa dal generale al Sisi si è estesa infatti anche a Mohamed el-Baqer, un giovane avvocato direttore dell’Adalah Center for Rights and Freedoms, finora rinchiuso in un carcere di massima sicurezza de Il Cairo (Tora 2) che le ong segnalano per condizioni di detenzioni definite “crudeli e disumane”.

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha detto espressamente che il governo italiano non considera la liberazione di Zaki come una contro partita offerta per accettare il silenzio italiano sul caso Regeni.

Esiste, quindi, tutto un universo di umanità che ha bisogno del sostegno della società civile internazionale per non ricadere nell’indifferenza e quindi nel buio della storia.  Come ha detto Riccardo Nuory, portavoce di Amnesty Italia, dopo la liberazione di Zaki, « è stata la campagna più originale di questo secolo, anche perché a guidarla c’è stata un’intera città (Bologna)».

Le stesse organizazioni sociali più responsabili,  non possono allo stesso tempo non affrontare la fondatezza costituzionale  delle tesi che giustificano le forniture di armi ad un regime che viola i diritti umani. Una questione centrale per la società e la politica intera.

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