Passeggiando nell’immaginario di Gaudì

Una ragazza dai tratti orientali, la carnagione olivastra l’idioma iberico davanti ad una cinepresa. Alle sue spalle la città e il mare, visti dall’alto. Quattro torri- campanili fusiformi si stagliano contro il cielo. Poco più in là due uomini intenti a salvare un patrimonio artistico con scalpelli e trapani, strumenti tutt’altro che docili. Nuvole di turisti fotografici. Tutti immersi in un sogno esteso quanto una collina, sogno ambizioso di città giardino: il Park Güell di Barcellona. Don Eusebi Güell era un esponente della borghesia catalana della fine del XIX secolo. Un giorno comprò una collina, la Muntanya Pelada, e decise di trasformarla in città giardino. Il progetto prevedeva sessanta case perfettamente integrate con la natura; una specie di paradiso terrestre per abbienti anime elette. L’impresa, senza dubbio, peccava di spiccata esclusività borghese ed era oltre le ordinarie possibilità di un architetto eccellente. Güell incaricò un visionario: Gaudí. Era il 1900, iniziava un nuovo secolo, un buon momento per anticipare la storia. Gaudí dispiegò lo sguardo da un capo all’altro della collina, chiuse gli occhi e immaginò un parco onirico, dove grandi e bambini avrebbero potuto credere alle favole, insieme contemplando la bellezza, pura o trasfigurata, della natura. Vide padiglioni arrotondati con comignoli a forma di fungo e tetti a quadri biancoazzurri; portici fantastici di colonne oblique, a dispetto apparente della gravità; una salamandra variopinta, guardiano leggendario, a presiedere una grande scalinata. Vide anche un po’ di Grecia: un colonnato dorico, dove camminare con la testa in su e tuffarsi nelle volte ricoperte di collages di bicchieri, bottiglie e bambole, raffiguranti soli e meduse, fondali marini proiettati nel cielo. Tutto questo Gaudí vide ed altre meraviglie. Poi riaprì gli occhi ed iniziò a lavorare. Smise nel 1914, quando capì di dover fare un’altra cosa. Succede così ai grandi. Gaudí prima vedeva e poi progettava. Aveva lo straordinario dono di sapere esattamente se una cosa deve essere più alta o più bassa, più piana o più incurvata. Questa non è altro che una qualità di veggenza – commentava – ed io, fortunatamente, lo vedo. Non posso farci niente. Ringrazio Dio per ciò e basta. Quando progettava, poi, integrava forme artistiche e forme naturali in un gioco da bambino geniale. Prendiamo ad esempio le colonne. Gaudí non costruiva colonne, ma alberi. Avete mai visto un bosco di alberi che vanno su dritti e paralleli? Sarebbe innaturale, sembrerebbe piuttosto un colonnato. Invece Gaudí tirava su alberi. Poi usava la statica, calcolando le linee di forza, per tenere il tutto in piedi, a forza di disegni e contrappesi. E questo faceva di lui un architetto eccezionale. Altrimenti sarebbe solo un sognatore. La navata della Sagrada Famiglia, con le colonne che si ramificano letteralmente raggiungendo la volta, ne è la prova più emozionante. La stessa cosa faceva con i colori, sui quali aveva le idee molto chiare già a 26 anni: La natura non ci presenta nessun oggetto in maniera monocromatica, del tutto uniforme per ciò che riguarda il colore, né nella vegetazione, né nella geologia, né nella topografia, né nel regno animale. Sempre il contrasto del colore è più o meno vivo e da ciò deriva il fatto che, obbligatoriamente, dobbiamo colorare in parte o per intero un elemento architettonico. Allora evviva la policromia, spettacolare, come quella delle volte del colonnato dorico e delle decorazioni astratte di frammenti d’azulejos delle panche del Park Güell, dove flora e fauna terrestre e sottomarina si mescolano in un paesaggio surreale. Nelle visioni di Gaudí ci si sente dentro la natura, in armonia, come essere a casa. Un casa immaginaria, ma possibile. In ogni parco che si rispetti ci sono delle panche. Per sedersi, riposare, osservare, riflettere. Le panche del Park Güell hanno anche la funzione di contenere la grande piazza sostenuta dal colonnato dorico. C’era più di una forma geometrica adeguata a questo scopo. Gaudí scelse la sua preferita: la curva in movimento, accelerandola in una serpentina, la cui bellezza sinuosa è un abbraccio infinito. Un’onda è un’oscillazione che si propaga. Ne osserviamo il passaggio senza sapere dove è iniziata e dove andrà a finire. Questo genera una sensazione d’illimitatezza, a Gaudí molto familiare. Evitando linee troppo dritte, ondulava volentieri superfici, soffitti, pareti, balconi, e perfino sedie, armadi, da far venire il mal di mare, o piuttosto il ben di mare, quel benessere estetico che si prova nel lasciarsi cullare lo sguardo da immagini curve. Tra le onde nate dalla sua mente, quella delle panche del Park Güell è forse la più spettacolare. Da lì si vede tutta Barcellona. Gaudí vedeva anche un’altra cosa che gli altri non vedevano: un boscotempio, ma anche montagna e caverna, con torri dalla fattura stupefacente che penetrano in un impulso ascensionale il cielo. Vedeva il tempio espiatorio della Sagrada Familia, al quale avrebbe dedicato gli ultimi dodici anni della sua vita, dal 1914 al 7 giugno del 1926, quando un tragico incidente pose fine alla sua opera tuttora incompiuta. In questo periodo Gaudí abbandonò qualsiasi tipo di lavoro profano. Contemporaneamente andò rafforzando la sua religiosità e diminuendo l’interesse per l’esteriorità. I biografi testimoniano il contrasto tra il Gaudí giovane, un po’ dandy, e il Gaudí maturo, indifferente nei confronti dell’abbigliamento e delle condizioni di vita. Visse gli ultimi anni in modo ascetico, esclusivamente dedito alla realizzazione del tempio. Una specie di vocazione. Da dimenticare che possedeva ancora un corpo, da non vedere un tram e finirci sotto. Così è morto Gaudí. Gli hanno trovato in tasca un tozzo di pane secco. Come un povero, forse beato. La chiesa si pronuncerà. Il tempio era chiamato anche Cattedrale dei Poveri, doveva finanziarsi esclusivamente mediante donazioni, criterio tuttora vigente. Un modo, anche questo, di lasciare un timbro di divinità. Non si riesce a parlare di Gaudí senza parlare della sua ultima opera. Forse la vita di un uomo va letta all’incontrario, iniziando dalla fine. Il giorno prima di partire da Barcellona, sono tornato al Park Güell, per guardarlo ancora un volta e togliermi una curiosità. Volevo sapere cosa ci faceva in una residenza-parco e non certo parca di bellezza, una scuola elementare, con tanto di campo sportivo, bambini in divisa che gridano, giocano, corrono, si fanno male, e giovani maestre catalane, con il loro idioma dolce ad insegnare. Il custode del parco mi ha spiegato che l’edificio esisteva prima che Güell comprasse il terreno per costruire la sua città giardino. Gaudí ristrutturò gli interni ed aggiunse un padiglione con terrazza per la figlia di Güell malata di tubercolosi, perché avesse anche lei un accesso, almeno visivo, al parco immaginario. Nel 1922 il parco divenne proprietà del comune, nel 1932 l’edificio fu adibito a scuola elementare. Fine della storia. Mi è sembrata una cosa giusta educare i bambini in mezzo a tanta favolosa bellezza. Crescendo, dovranno abbandonare la scuola nel parco e subire la violenza della linea retta, la banalità del parallelismo, l’anormalità del monocromatismo, la vita troppo poco magica. Ma potranno sempre tornare al Park Güell, per smussare lo sguardo e continuare a sognare. Quello che ho fatto anch’io, camminando lentamente, scattando istantanee con gli occhi, digitali con l’apparato, scrivendo versi, portando via un po’ di bellezza, in tutti i formati possibili. Sguardi oltre il visibile, a cercare bellezza/per restituirla ad occhi asciutti, rifocillarli/Come sarebbe il mondo senza visionari? L’ARCHITETTO DI DIO Di Anton Gaudí consigliamo questa biografia, pubblicata dalle Edizioni Paoline: Gaudí. L’architetto di Dio (pp.236, euro 16,00). L’autore, il barcellonese Juan José Navarro Arisa, riesce a rendere le molteplici sfaccettature di questa personalità complessa e, per certi versi, misteriosa, che molti ritengono degna di essere elevata alla gloria degli altari, offrendo al tempo stesso una descrizione contestualizzata dell’epoca e della società che permisero al suo genio di creare opere che appartengono ormai al patrimonio storico e artistico dell’intera umanità .

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