Parla greco la Napoli sotterranea

Luogo ininterrotto di sepoltura nell’arco di quasi 1800 anni, il quartiere Vergini-Sanità conserva nel sottosuolo eccezionali testimonianze della città greco-romana.

 

Nel centro storico di Napoli, patrimonio Unesco dal 1995 a motivo della sua eccezionale stratificazione storico-artistico-culturale, il borgo Vergini e il rione Sanità – area extraurbana nell’antichità, utilizzata come necropoli e cava del pregiato tufo giallo – offrono tesori risalenti all’epoca ellenistica e paleocristiana che solo di recente stanno ricevendo una adeguata valorizzazione, insieme a quelli di età successive.

L’itinerario prende il via da Porta San Gennaro, la più antica porta di Napoli, menzionata già in documenti risalenti al X secolo. Unico punto di accesso nella parte Nord della città, era così chiamata in quanto da essa iniziava anche l’unica strada che portava alle catacombe dell’omonimo santo. Ma era detta anche “del tufo” perché vi transitavano i grandi blocchi di questa roccia vulcanica estratti dal vallone della Sanità, le cui pareti rocciose fornivano anche il materiale per la grande necropoli della Neapolis greca. Ne facevano parte magnifiche tombe a camera scavate nel masso tufaceo tra la fine del IV secolo a. C. e i primi tre quarti del III, tombe ispirate a modelli della madrepatria.

A farmi da guida in alcuni di questi ipogei funerari – invisibili all’esterno perché, ricoperti da sedimenti alluvionali, sono rimasti inglobati sotto costruzioni posteriori – sarà l’archeologo Carlo Leggieri di Celanapoli, associazione culturale che dal 1992 promuove il recupero, la valorizzazione e la fruizione di un patrimonio ancora poco noto agli stessi napoletani. L’appuntamento è sotto l’arco di questa Porta San Gennaro che è rifacimento aragonese di un più antico varco della cinta muraria greca.

Nell’attesa di tuffarmi nel passato più remoto della mia città, provo a immaginare come doveva apparire il vallone boschivo della Sanità nei secoli in cui ospitò la necropoli pagana di età ellenistica, poi i complessi catacombali dei santi Gennaro, Gaudioso e Severo; e ormai nel XV secolo, l’immenso ossario delle Fontanelle noto in tutto il mondo.

L’arrivo del dottor Leggieri interrompe queste fantasticherie. A piedi e in fretta, anche perché è sera ormai avanzata, raggiungiamo – in uno dei più popolosi, chiassosi e multietnici quartieri napoletani – via Santa Maria Antesaecula, dove al numero 129 ha la sede l’associazione di cui egli è presidente: un tipico “basso” napoletano all’interno del quale, scendendo per otto metri in uno scantinato, si accede ad uno degli ipogei, quello detto dei Togati, intagliato integralmente nel banco tufaceo. Quel che è visibile del prospetto monumentale, sul quale è scolpita una scena di commiato funebre, ricorda certe tombe macedoni e anatoliche. Qui, inequivocabilmente, si “respira” grecità. Nella stessa via, una seconda camera sepolcrale conserva notevoli resti della decorazione parietale; spiccano, sulla cornice che corre sull’imposta di volta, pomi e melagrane dipinti in rosso e in giallo.

Dalla mia guida vengo a sapere che sono quasi 150 le antiche sepolture finora accertate, alcune note già dalla fine del Seicento, che si sviluppano per circa un chilometro in quest’area, fino al dorso della collina di Capodimonte. Le più sontuose sono espressione dell’aristocrazia napoletana nata dall’unione di elementi greci e sanniti. Alcune rivelano persino influenze dell’arte egizia e orientale: un chiaro esempio di come, sin dagli esordi, Neapolis raccogliesse culture e conoscenze da tutto il Mediterraneo.

Purtroppo, lo stato di conservazione di questi tesori non è dei migliori. Nel corso dei secoli gli ipogei sono stati utilizzati per gli scopi più vari: da cisterne per l’acqua a rifugi durante l’ultima guerra, fino a divenire, alcuni, discariche per materiali edili. Meritoria è dunque l’attività di Celanapoli che da anni, senza finanziamenti pubblici, cerca di tutelare questo patrimonio dall’incuria (riuscendo in qualche caso anche a continuare l’opera di disseppellimento) e di portarlo a conoscenza degli appassionati di archeologia del sottosuolo.

Non riusciremo, per motivi di tempo, a spingerci fino in via Cristallini, dove alla profondità di 12 metri si trovano quattro camere sepolcrali tra loro indipendenti, ognuna fornita di ipogeo sottoposto: forse le più interessanti e spettacolari per affreschi, corredi rinvenuti e sarcofagi a forma di finto letto funebre con materasso e guanciali; tombe utilizzate ancora in età imperiale, stando ad alcune iscrizioni sulle pareti.

In compenso, in via San Carlo all’Arena mi è riservata un’ulteriore sorpresa. Il dottor Leggieri, che nel 2011 è stato protagonista, insieme a un dipendente dell’Arciconfraternita dei Pellegrini, Ciro Galiano, di un clamoroso rinvenimento, vuol mostrarmi un tratto dell’acquedotto campano alimentato dalle sorgenti del Serino, nell’Avellinese, ottimamente conservato sotto un palazzo di proprietà della stessa Arciconfraternita. Da una botola aperta in un cortile discendiamo una rampa e ci troviamo in un vasto ambiente sotterraneo attraversato da due possenti arcate in laterizio di età augustea e flavia. Studi effettuati dopo la scoperta hanno confermato trattarsi proprio di quella importante opera d’ingegneria idraulica, anch’essa obliterata dall’interro secolare dovuto alle cosiddette “lave dei Vergini”: le acque piovane che, trascinando da Capodimonte e dalle colline circostanti fango e materiali rocciosi, hanno causato il seppellimento – e la conservazione – dei tesori archeologi che ora vado scoprendo.

Non sono però, gli ipogei ellenistici, le uniche testimonianze di una grecità rimasta inalterata anche dopo che Napoli divenne municipio romano. Durante gli scavi per la nuova stazione metro di Duomo, in piazza Nicola Amore, sono emersi, a partire dal 2003, i resti dell’antico Gymnasium e una serie di lastre marmoree con impressi, in greco, i nomi dei vincitori delle Isolimpiadi, divise per categorie (uomini, donne, fanciulle, ragazzi) e discipline (pancrazio, lotta, pugilato, corsa armata).

Questi giochi furono istituiti nel 2 d.C per onorare l’imperatore Augusto, che alcuni anni prima era intervenuto in soccorso della città partenopea devastata da un terremoto. Riconosciuti in breve tempo come i più prestigiosi d’Occidente, attiravano atleti e campioni da ogni angolo del Mediterraneo e proprio come avveniva per quelli di Olimpia avevano una cadenza quinquennale, prevedendo – oltre alle discipline citate – gare ippiche, di recitazione e di canto.

Degli Italikà Romaia Sebastà Isolympia (così erano chiamati nella lingua dell’Ellade) parlò il grande archeologo Amedeo Maiuri in questi termini: «Napoli ebbe, unica città dell’Occidente, il privilegio di celebrare i giochi italici in onore di Augusto. E quel privilegio non era dovuto tanto a personale predilezione dell’imperatore o a ragioni di opportunità politica, quanto piuttosto alla sua intatta grecità: ché nel generale decadimento dell’ellenismo della Magna Grecia e della Sicilia, Neapolis, ancora greca di lingua, di istituzioni, di culti e di riti e di costumi, poteva essere considerata, nella prima età dell’impero, la metropoli dell’ellenismo d’Occidente».

 

 

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