Papaioannou alla ricerca dell’uomo nascosto

Al Napoli Teatro Festival Italia, l’artista greco, dalla scena di lastroni affastellati riporta in luce, come un archeologo, dapprima pietre e terra, poi creature umane. Un viaggio nella dualità dell’animo umano alla ricerca delle radici più profonde

Classe 1964, artista multidisciplinare dalla creatività non catalogabile dato che è coreografo, regista, pittore, performer, fumettista, il greco Dimitris Papaioannou ha legato il suo nome principalmente alle cerimonie delle Olimpiadi di Atene del 2004. Si deve a Bob Wilson la sua scoperta recente. In Italia, la rivelazione del potente talento visionario e poetico, dell’originalità teatrale e coreografica che lo caratterizza, risale agli ultimi due anni con due spettacoli che lo hanno consacrato: Still Life e Primal Matter. Oggi è richiesto ovunque.

La cultura visiva, per formazione all’Accademia di Belle Arti – solo successivamente anche alla danza contemporanea –, è una delle cifre teatrali che lo definiscono. Anche nell’ultimo spettacolo The Great Tamer – ospitato con grande successo, dopo il debutto ad Atene e Amsterdam, al Napoli Teatro Festival Italia, e pronto per una tournée internazionale –, i rimandi pittorici, scultorei, e cinematografici, sono espliciti: Rembrandt, Botticelli, El Greco, Murnau, Fritz Lang, Kubrick, e Yannis Kounellis in particolare, alla cui Arte Povera si ispira dichiaratamente. Basti l’immagine iniziale delle scarpe nere in proscenio difficili da strappare dal suolo. Appena l’uomo che le indossa riesce a staccarle riveleranno piante di radici fissate alle suole. Di continue rivelazioni è costruito lo spettacolo: rinvenimenti e occultamenti che hanno radici sottoterra, alla ricerca degli strati nascosti dell’esistenza umana, di se stessi e del mondo.

Il titolo The Great Tamer (Il grande domatore) è una metafora per definire il tempo, usata da Omero e i tragici greci, ma anche un riferimento al gioco del circo dove il domatore che educa gli animali selvaggi è dunque colui che educa se stesso. Ma il tempo di Papaioannou è dilatato al nostro e a quello prossimo e ancora più futuro. Attinge indirettamente al mito di Persefone, la dea moglie di Ade costretta a trascorrere 6 mesi nell’oltretomba e gli altri 6 tra i viventi, con la condanna che durante il tempo impiegato nel regno dei morti, nel mondo sarebbe calato il freddo e la natura si sarebbe addormentata, mentre nei restanti mesi la terra sarebbe tornata fertile. Fertilità e aridità,  dunque, luce e buio, sono gli altri temi che emergono in questo affresco senza parole, silenzioso e rarefatto nel procedere per tableaux vivants, che celebra quella civiltà classica la cui eredità è, per l’artista greco, ineludibile.

Come un archeologo, dai lastroni grigi affastellati sulla vasta scena ondulata e rialzata su un monticello, Papaioannou riporta in luce dapprima pietre e terra, poi creature umane scomposte negli arti – per effetto di illusione ottica, di sovvertimenti anatomici fatti di incastri e nascondimenti delle membra –, ricomposte e portate in vita. In un flusso lento di immagini perturbanti e posizionamenti plastici degli 11 performer, rigorosamente in completi neri, si ripete il ciclo della vita, morte e rinascita. Già nella sequenza iniziale, dove un uomo si denuda e si sdraia morto come un Cristo del Mantenga. Una figura avanza e lo copre con una stoffa leggera che viene subito fatta volare via dall’intervento di un altro uomo lasciando cadere un pannello divelto. Questa sequenza reiterata, che è un rigetto della morte, dà inizio al fascinoso e ipnotico viaggio esplorativo nel cuore di un’umanità all’origine del mondo, che la genialità di Papaioannou proietta nel presente e nel futuro in una continuità che non segue una narrazione ma evoca epoche e mondi immaginari.

Viene dal futuro, sulla musica distorta del Danubio blu di Strauss – chiaro richiamo al film 2001 Odissea nello spazio di Kubrick –, l’astronauta che, ansimante, sbarca sulla scena e scava su quella crosta terrestre estraendo un uomo: forse Adamo, dato che, tolta la muta spaziale, apparirà una donna, una nuova Eva, che lo tiene adagiato come in una sacra Deposizione, lo aiuta poi ad articolare le membra, lo alza e prende in braccio scomparendo nel buio. Quel corpo issato poi su dei trampoli, scomposto come una marionetta, deposto su un tavolo sarà anche oggetto di studio anatomico nella pittorica scena che velocemente si compone raffigurando il celebre dipinto di Rembrandt Lezione di anatomia. Sarà anche figura centrale e pudica di una versione maschile della Nascita di Venere di Botticelli, mossa dal soffio lieve di Flora e Zefiro. Tenuto sospeso, camminerà poi fino a iniziare una danza sinuosa di braccia fluide e gli sarà posto in mano un enorme libro della conoscenza, offerto delle arance da gustare; sosterà ad una fonte d’acqua, e incederà in bilico sopra un mappamondo dopo aver conosciuto la lotta rivale, il frantumarsi del corpo ingessato e liberato, pronto per andare con scarpe da ginnastica e zaino in spalla.

Sono ancora molte le sequenze, le allegorie, i simboli e le evocazioni di The Great Tamer: dalla moltitudine di frecce lanciate che si conficcheranno sul pavimento diventando campo di grano dentro il quale scivolare; ai giochi con delle trombette in bocca; ai pezzi staccati del corpo affioranti da diverse fenditure come in un campo di battaglia e distribuiti fino a ricomporsi in un girotondo di fratellanza che esce da sottoterra e vi rientra. Per culminare nel ritrovamento di uno scheletro esposto sopra un pannello. Lentamente, al suono cupo di un tonfo, si sgretolerà in un mucchietto di ossa. Di tutto questo flusso calmo e costante di un immaginifico mondo di rovine che ci ha catturati ed emozionati, rimane, infine, solo la figura di un sopravvissuto, o di un uomo nuovo, che volteggia soffiando in aria un fazzoletto dorato senza lasciarlo cadere. Il soffio del Creatore su un nuovo mondo?

“The Great Tamer”, ideazione e regia Dimitris Papaioannou, scene e assistente alla regia Tina Tzoka, assistente ai costumi Aggelos Mendis, assistente alle luci Evina Vassilakopoulou, assistente alla fonica Giwrgos Poulios, suoni Kostas Michopoulos, music adaptation Stephanos Droussiotis, sculture Nectarios Dionysatos, costumi e decorazioni Maria Ilia. Al Napoli Teatro Festival Italia, Teatro Politeama.

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