“Padre nostro” secondo Carnelutti

Francesco Carnelutti è stato, provenendo da umili origini, un grande giurista, docente universitario e avvocato in famosi processi degli anni Cinquanta. A un certo punto della sua rigorosa e gratificante carriera (ri)scoprì la fede divenendo un cattolico tanto fervente quanto serenamente laico (nel senso non equivoco della parola). Frutto, tra l’altro, di questo consapevole e maturo ritorno, furono due commenti al “Padre nostro” che andarono, niente affatto ultimi, anzi tra i primi, direi, ad arricchire la sterminata letteratura specifica, dai Padri a Simone Weil e oltre, con un contributo che oggi si fa apprezzare tanto da indurre la “laica” editrice Marsilio a pubblicarli, con gesto culturalmente probo e intelligente. Nel maggiore dei due, Il poema di Gesù, veramente si ammira la mente chiara e larga dell’uomo di giurisprudenza che non lucra indebitamente sulla propria fede, ma la usa per mettere a fuoco, ragionevolmente, l’immenso e quasi inapparente patrimonio della massima preghiera cristiana: dei cristiani e di Cristo stesso. E Carnelutti inizia proprio dalla parte degli increduli: “Dio, del quale si dice che tanto ci ama, vuol essere pregato?(…) Non ci amerebbe di più se ci aiutasse senza nessuna domanda?”. Proprio gli increduli e i superbi “dovrebbero preferire che invece di salvarci a nostra insaputa, Dio abbia posto la salvezza nelle nostre mani. Credere o non credere dipende da noi perché dipende da noi pregare o non pregare”. Si susseguono le fini annotazioni dell’uomo di Diritto: il “noi” del “Padre nostro” svela il bene comune che “non può essere dell’uno senza essere dell’altro”; la compresenza del re e del padre “risolve il re nel padre e il padre nel re” aprendo il “regno” proprio sulla croce del Figlio, che crocifigge anche il Padre e insegna agli uomini la pena (amorosa) come prezzo-riscatto della libertà perduta; l’obbedire è etimologicamente (ob-audire) un ascoltare, in una società sempre più distratta, che perde la legge e ha bisogno della medicina di san Paolo: la fede oltre e più della legge (ma non senza la legge) per riportare l’amore nel mondo. Carnelutti ha un senso acuto dell’ordine gerarchico del “Padre nostro”: sa e spiega da par suo come la prima parte chieda le cose del cielo per rendere gli uomini degni di chiedere e ottenere poi le cose della terra (“il pane quotidiano”). E a ciò, a questa libertà purificata, collega la grande richiesta (“rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”): utilizzando, sempre da grande giurista, l’etimologia, spiega che “il perdono è un altro dono, in aggiunta a quello della libertà. Perdonare significa permettere all’uomo di redimersi con il pentimento. Il Signore, consapevole di aver fatto all’uomo con la libertà un dono pericoloso gli dona perfino il rimedio contro il danno derivante da quel pericolo.(…) chiedere il perdono suppone la coscienza del peccato e quindi quel riconoscimento di sé come peccatore, che esclude nell’uomo la possibilità di giudicare l’altro, e, pertanto, la necessità di perdonare le offese”. E per “liberaci dal male”? Ecco: con tutta la sua misura di delicatezza, Dio però non ce le evita, pur senza farci soccombere, perché “le tentazioni sono scalini, su per i quali l’uomo faticosamente, passo per passo, centimetro per centimetro, millimetro per millimetro, ascende verso Dio. Se non ci fossero, l’uomo non avrebbe dove puntare i piedi”. È una meraviglia, e taccio del resto per ragioni di spazio. Ma si tratta, come credo sia evidente, di un commento splendido, completato dal secondo, più breve ed “esistenziale”; e proprio laico, per credenti e non credenti.

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