Oscar 2003

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Essere e avere. In questo caso niente a che fare con il titolo del film di Nicholas Philibert che segue il lavoro di un maestro in un zona rurale della Francia, ma con le due facce con cui si è presentata la 75a edizione dell’Oscar. Una è la faccia dell’essere, ovvero quella che mostra abitualmente Hollywood, il suo volto naturale che trasforma in spettacolo tutto ciò su cui si fissano i suoi occhi; l’altra, quella dell’avere, è il modello al quale la Mecca del cinema si affida per ritagliarsi una nuova identità e ad assumere una fisionomia che non sia quella più scontata. Così, con il classico colpo al cerchio e alla botte, in un capolavoro di equilibrio e diplomazia, l’edizione ha messo in mostra tutte e due le facce: quella convenzionale, dello spettacolo allo stato puro, celebrazione dell’industria di Hollywood e del suo sistema, assegnando la statuetta del miglior film a Chicago di Rob Marshall; quella del momento che stiamo vivendo, dettata dalle circostanze, dal clima creatosi con la guerra in Iraq e con la tensione esplosa nel mondo, premiando per la miglior regia (l’altra statuetta più ambita) Roman Polanski e il suo Il pianista: film che, rievocando la tragedia dell’Olocausto, richiama l’attenzione su nuovi orrori e nuove violenze, invitando tutti a ricordare e a riflettere. L’edizione 2003 dell’Academy Awards sarà ricordata per questi due film, per due modi diametral- mente opposti di vedere il cinema e di intendere le sue stesse funzioni: Chicago è l’espressione dell’industria del divertimento, delle luci, dell’intrattenimento; Il pianista è l’impegno storico e politico che invita a meditare, a conservare nella coscienza e nella memoria i segni di eventi che non dovrebbero ripetersi. E, oltretutto, un film di estrema attualità, perché nel patto di solidarietà fra l’ufficiale nazista e il pianista ebreo c’è la dimostrazione che la pace fra uomini di razza, religione, ideologia diverse non è affatto un’utopia e una chimera irraggiungibile. Due film che si sono accaparrati i pezzi migliori. Sei statuette a Chicago: miglior film, migliore attrice non protagonista (Catherine Zeta-Jones) e poi ancora miglior scenografia, costumi, montaggio, suono. Tre a Il pianista: miglior regia (Roman Polanski), miglior attore protagonista (Adrien Brody, 29 anni, il più giovane protagonista premiato nella storia degli Oscar), miglior sceneggiatura non originale (Roland Harwood). Il resto è cronaca. E la cronaca ha trascurato oziose polemiche e inutili pettegolezzi per concentrarsi invece esclusivamente sulle manifestazioni a favore della pace fuori dal teatro in cui si svolgeva la cerimonia delle premiazioni. Pacifiche e no, visto che ci sono stati ripetuti scontri con la polizia. Ma anche all’interno la contestazione si è fatta sentire. Il corpulento Michael Moore, salito sul palco a ritirare la statuetta per Bowling a Columbine, miglior documentario, non ha mancato di gridare ripetutamente “Vergogna”. E anche Nicole Kidman, miglior attrice protagonista per il ruolo di Virginia Woolf in The Hours di Stephen Daldry, ha avuto parole accorate per quanto il cinema può fare a sostegno della pace. Neppure un premio a Gangs of New York di Martin Scorsese, forse perché in questo momento tributare lodi ed encomi alle radici violente della società americana sarebbe risultato fuori luogo oltre che controproducente. L’Oscar per il miglior film straniero è andato al tedesco Nowhere in Africa di Caroline Link, che aveva già corso per l’Oscar nel 1996 con Al di là del silenzio. Nowhere in Africa è la storia di una bambina tedesca, figlia di genitori ebrei che sono fuggiti in Kenya prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, e della sua scoperta di un mondo agli antipodi da quello che i suoi genitori si sono lasciti alle spalle. Evidentemente il tema della tolleranza razziale e del rispetto reciproco fra i membri di questa famiglia e della popolazione nera che vive a contatto con loro ha favorito Nowhere in Africa sugli altri concorrenti. E anche questa statuetta rientra nei segni dei tempi che hanno guidato l’Oscar 2003. Nell’avere una funzione sociale piuttosto che nell’essere uno spettacolo attraente, ma nulla di più.

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