Oltre l’apparenza e il clamore dei media

Il processo di Perugia è un richiamo all'intera società ad un ridimensionamento morale. La riflessione del professor Ali Abukar Hayo, ordinario di diritto penale all’Università degli studi Nicolò Cusano Roma.
amanda knox seattle

Come nei film, alla fine il colpo di scena è arrivato: niente più Amanda Foxy Knoxy, la bella e tenebrosa assassina – almeno così ce l’avevano dipinta –, ma la ragazza in lacrime all’aeroporto di Seattle, finalmente libera da un’ingiusta persecuzione e accolta dalla città in festa. Che questo possa succedere solo sullo schermo è, appunto, l’opinione di tanti: e infatti sin dalla lettura della sentenza di appello si sono scatenate le polemiche su come sia potuto accadere che per quattro anni fossero state ignorate falle così evidenti nella raccolta delle prove, e su come il nostro sistema giudiziario faccia per l’ennesima volta una pessima figura.

 

Passata la reazione a caldo, tuttavia, alcune considerazioni si impongono, al di là di come siano andate le cose in questo caso specifico. Ci facciamo aiutare in questa riflessione dal professor Ali Abukar Hayo, avvocato penalista e ordinario di diritto penale all’università Nicolò Cusano di Roma.

 

 

Professor Abukar, molti si meravigliano di come una sentenza possa venire ribaltata in appello dopo così tanto tempo: il nostro sistema quindi non funziona a dovere?

 

«Non è un problema italiano, ma dell’uomo: errare è umano, e quindi esistono – per fortuna – tre gradi di giudizio. Il problema italiano è piuttosto che spesso i processi si fanno in piazza invece che nelle aule di tribunale, per cui alla fine nessuno fa quello che è il proprio dovere. In questo senso siamo tutti corresponsabili, perché lo Stato di diritto ha fallito in ogni caso: se Amanda e Raffaele sono in realtà colpevoli, li abbiamo scarcerati; se invece sono davvero innocenti, come in effetti lascia supporre la sentenza di assoluzione con formula piena, li abbiamo tenuti in cella per quattro anni. E purtroppo non esiste alcun equo indennizzo che possa riparare il danno irreversibile provocato dall’ingiusta detenzione».

 

 

Infatti Alfano ha sollevato la questione della responsabilità dei giudici…

 

«Non possiamo far pendere sulla loro testa una sanzione pecuniaria pesante, altrimenti correremmo il rischio che, per tutelarsi, assolvano sempre, e questo non offrirebbe alcuna garanzia alla vittima. Però si può pensare a sanzioni disciplinari, nei casi più gravi e reiterati, oppure a semplici misure che limitino la progressione di carriera, nei casi meno gravi. Oggi ci si rende conto che il potere dei pubblici ministeri può essere pericoloso: ma il problema non è il sistema, bensì le risorse umane. Occorre rieducare le persone, a partire dal singolo cittadino che, vedendo un incidente o un furto mentre passa per strada, si gira dall’altra parte per non avere la seccatura di testimoniare».

 

 

Alcuni hanno visto nell’eccessiva mediatizzazione di questo processo una delle cause della maniera controversa in cui si è svolto: i mezzi di informazione hanno davvero un potere così grande da influenzare i procedimenti giudiziari?

 

«Le rispondo che il pericolo sussiste. Quando un magistrato appare in televisione, o vede il suo nome su un giornale, può “cambiare pelle”. La luce dei riflettori può avere conseguenze negative: nella fase delle indagini il magistrato, per appagare l’opinione pubblica, potrebbe trascurare la continua ricerca del giusto equilibrio tra i due interessi in conflitto – l’esigenza investigativa da una parte, e la tutela della libertà dell’indagato dall’altra; nella fase del giudizio, il magistrato perde la sua “ingenuità”, nel senso che il suo convincimento può essere prefigurato dalle notizie circolanti prima che il dibattimento abbia luogo o comunque in ambito diverso dall’aula giudiziaria. Ovviamente la libertà di stampa è un diritto e un valore da salvaguardare: è necessario tuttavia arginare le continue interferenze con i procedimenti in corso».

 

 

Un altro dei temi che tiene banco in questi giorni, infatti, è come bilanciare libertà di informazione e tutela del procedimento giudiziario: lei che cosa propone?

 

«Non credo che una norma giuridica possa risolvere la situazione. Piuttosto che incriminare il giornalista, comincerei a proibire che compaiano le immagini e i nomi di chi si occupa di un’indagine e del processo in corso, appunto per il rischio di cui parlavo prima. Non si vuole affrontare il fatto che fare nomi comporta un’esaltazione. Purtroppo viviamo una stagione in cui, come dico spesso, ci accontentiamo della “schiuma”, della superficie, dell’apparenza: cerchiamo di andare oltre, di ridimensionarci come società, non solo a livello economico ma anche morale».

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