Nostalgia di paternità, nostalgia di figliolanza

Il rapporto con i genitori e il (conseguente) rapporto personale con Dio
Foto Pexels

Non di rado nei colloqui di accompagnamento spirituale viene fuori il problema di come riscoprire o riaccettare in modo nuovo la figura paterna o quella materna. Sullo sfondo si percepisce la lunga ombra dell’eclissi di queste figure che pervade e agita la nostra società.

L’eclissi è dovuta a una serie complessa di fattori, ma tra questi vengono in particolare evidenza il rifiuto del padre padrone o di una madre possessiva e, all’opposto, una sorta di liquefazione, di evanescenza delle figure genitoriali. Tutto questo ha un influsso anche sul rapporto personale con Dio. Il rigetto o l’inconsistenza della figura paterna scava spesso un baratro profondo tra la persona e il padre originario, colui «dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende il nome» (Ef  3,15).

Nonostante la tentazione dell’auto-filiazione o del ricorso disperato ad essa, rimane nella persona umana un insopprimibile bisogno di riconoscersi derivato da qualcuno. E da qualcuno che le mostri, al di là di ogni deformazione o errore, un volto benevolo, uno sguardo che le sussurri con una nota di fierezza: «È bene che tu ci sia». Un’espressione che per il credente è come un’eco attualizzata e personalizzata del: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato» del Salmo 2.

«Ho dovuto aspettare lunghi anni della mia vita per ricevere il primo abbraccio da mio padre», mi confidava una persona che, dopo quell’abbraccio, ha poi sperimentato un salto di qualità non solo nella sua serenità personale ma anche nel suo rapporto con Dio.

Un abbraccio cercato e finalmente trovato dice come la paternità a volte possa rispuntare nuova dopo la dura esperienza della fragilità del genitore e dei suoi errori. Essa riaffiora ancora come punto di riferimento irrinunciabile ma non come presenza intrusiva o dominatrice, quanto piuttosto come porto sicuro, specialmente nei momenti di burrasca; un porto però che non trattiene legato a sé il figlio, ma lo sprona e lo sostiene nelle nuove navigazioni che egli decide di intraprendere.

È emblematica, a questo riguardo, l’esperienza del veggente/sacerdote Eli col giovane Samuele nel momento della chiamata di quest’ultimo. Quando il ragazzo sentendosi chiamare per tre volte dalla voce di Dio che non sa riconoscere, per tre volte corre da Eli.

Il veggente che non era in una fase brillante della sua vita («La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti», 1 Sam 3, 1) e che quindi in quel momento non rappresentava un grande modello, riesce lo stesso a fare la sua parte.

Intuisce che è Dio che sta cercando di dire qualcosa di nuovo al ragazzo e gli suggerisce l’atteggiamento giusto da avere: «Parla Signore, il tuo servo ti ascolta». Non si fa lui stesso interprete/portavoce della parola che Dio ha da dire a Samuele ma lo rimanda direttamente alla paternità divina. E così il ragazzo, confortato dalla fiducia e dal sostegno del profeta, capisce che è giunto per lui il momento di spiegare la propria vela.

Nostalgia di paternità e nostalgia di figliolanza hanno l’una nell’altra la propria ragion d’essere, nelle relazioni umane e nel loro fondamento ultimo. C’è una paternità fontale alla quale tutti aneliamo («Uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» Mt 23,8), ma c’è anche un anelito da parte di Dio nei confronti dell’uomo, come lascia intendere chiaramente la parabola del padre misericordioso: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro» (Lc 15, 20).

È questa nostalgia di Dio che fonda quella terrena e, in ultima analisi, non le permette di restare solo un pio desiderio.

Le precedenti puntate:

Lo stupore originario

Il mistero della persona

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