Non solo credenti ma anche credibili

Nella prima domenica dell'Avvento, un'acuta ed attuale riflessione sull'essere cristiano del nuovo millennio di Mons. Petrocchi dal libro "Diventare se stessi" di Città Nuova editrice.
Diventare se stessi

Era il Natale dell’anno 2000 quando mons. Vincenzo Petrocchi decise incentrare tutta la sua omelia per la festività sull’essere cristiani credibili alle soglie del nuovo Millennio. Quel brano assieme ad altri sono confluiti nel libro Diventare se stessi di Città Nuova editrice che raccoglie una serie di riflessioni su come prepararsi al Natale.

 

«Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso» (cf. Sap 18, 14), il Verbo di Dio, che in Maria aveva preso la nostra carne, pose la sua dimora tra noi (cf. Gv 1, 14). Egli, che era prima del tempo, venne ad abitare nella storia degli uomini; Colui che i cieli non contengono, l’Onnipotente, si è fatto piccolo e umile a Betlemme. «Colui che era senza carne, il Logos – esclama Gregorio Nazianzeno –, si fa concreto, Colui che è invisibile si vede, Colui che è intoccabile viene toccato, Colui che è fuori del tempo prende inizio, il Figlio di Dio diventa figlio dell’uomo» (Discorsi, 38). È disceso dai cieli, è venuto a cercarci: sapendo che non avremmo mai, da soli, ritrovato la strada per tornare a Lui, si è fatto Lui stesso nostra via (cf. Gv 14, 6) e ci ha lasciato un esempio perché potessimo seguirne le orme (cf. 1 Pt 2, 21).

 

Si è fatto “uno di noi”, nonostante i nostri limiti, e ci ha accolto, con tutti i nostri difetti. «Ci ha amati per primo» (1 Gv 4, 19) e si è donato a noi senza riserve, aiutandoci a comprendere che tutto vince l’Amore, poiché chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio in lui (cf. 1 Gv 4, 15). «Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore», scrive Origene (Omelie su Ezechiele, VI, 6).

Come ogni anno, il Natale ci chiama a fare memoria di questo mistero: nella semplicità e nella povertà di una grotta, accolto da Maria e Giuseppe, salutato da umili pastori, il Figlio di Dio viene nel mondo per portare agli uomini la pace e la salvezza del Padre. Anche a noi, come ai pastori, è chiesto di ascoltare la voce degli angeli e di aprire la nostra casa a Colui che sta alla porta e bussa (cf. Ap 3, 20).

«Non abbiate paura! – esortava papa Giovanni Paolo II – Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo. Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura. Cristo sa cosa c’è dentro l’uomo. Solo Lui lo sa» (Omelia per l’inizio del Pontificato (22 ottobre 1978, n. 5). Far posto a Gesù vuol dire anzitutto accogliere il Suo amore, diventando capaci di amare e di amarci come Egli ci ama; vuole dire accettare umilmente le nostre fragilità, sapendo che Cristo ci accoglie così come siamo. Solo se saremo interiormente riconciliati potremo essere testimoni di riconciliazione.

Lasciando che risplenda in noi la «Luce vera che illumina ogni uomo» (cf. Gv 1, 9), impareremo a scorgere sempre meglio, e ad accogliere con prontezza crescente, anche i segni tangibili della Sua presenza tra noi. In primo luogo il segno della Parola: il cielo e la terra passeranno, ma non la sua parola (cf. Mt 24, 35); da essa veniamo rigenerati (cf. 1 Pt 1, 22) e nell’impegno a praticarla sta il segreto della nostra felicità, come ci ammonisce l’apostolo Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come un uomo che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla» (cf. Gc 1, 22-25).

 

Gesù entrò nel mondo vestito di povertà e debolezza; uscì da questo mondo morendo nudo sulla croce e lasciandoci un’eredità preziosa: dal suo costato, infatti, versò sangue e acqua (cf. Gv 19, 34): simbolo dei sacramenti, segni misteriosi ed efficaci della sua Grazia, sorgenti di vita nuova che edificano la Chiesa e ci sostengono nel cammino. È per mezzo di essi, soprattutto dell’Eucaristia, che Gesù, fattosi uomo per amore dell’uomo, perpetua la sua presenza tra noi: «Da duemila anni – scrive Giovanni Paolo II –, la Chiesa è la culla in cui Maria depone Gesù e lo affida all’adorazione e alla contemplazione di tutti i popoli. Che attraverso l’umiltà della Sposa possa risplendere ancora di più la gloria e la forza dell’Eucaristia, che essa celebra e conserva nel suo seno. Nel segno del Pane e del Vino consacrati, Cristo Gesù risorto e glorificato, luce delle genti (cf. Lc 2, 32), rivela la continuità della sua Incarnazione. Egli rimane vivo e vero in mezzo a noi per nutrire i credenti con il suo Corpo e il suo Sangue» (Incarnationis mysterium, 11).

Francesco d’Assisi – che a Greccio volle rappresentare anche visivamente l’evento del Natale – sottolineava con forza tutta particolare l’inscindibile nesso Incarnazione-Eucaristia: «Ecco, ogni giorno Egli si umilia come quando dalle sedi regali scese nel grembo della Vergine; ogni giorno viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote» (Fonti Francescane, Ammonizione I, 144).

Ma per “far posto” a Gesù, non basta accoglierLo nella sua Parola e nei suoi Sacramenti: occorre riconoscerLo anche nei fratelli che ci camminano accanto, soprattutto negli “ultimi”, nei deboli, in coloro che nessuno ama. Da ricco che era, Gesù si è fatto povero per arricchirci della sua povertà (cf. 2 Cor 8, 9): Egli stesso si è identificato con i “fratelli più piccoli” (cf. Mt 25, 40.45). È per questo che l’amore preferenziale per i poveri costituisce «un’opzione, o una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la tradizione della Chiesa […]. Oggi poi, attesa la dimensione mondiale che la questione sociale ha assunto, questo amore preferenziale, con le decisioni che esso ci ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto dell’esistenza di queste realtà.

 

L’ignorarle significherebbe assimilarci al “ricco epulone”, che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta (cf. Lc 16, 19)» (Giovanni Paolo II, Enciclica Sollicitudo rei socialis, 42). Non possiamo celebrare degnamente il Natale del Signore senza aderire fino in fondo a questa fondamentale verità della nostra fede: poiché per amare Dio, che non vediamo, è necessario amare i fratelli, che sono sempre davanti ai nostri occhi (cf. 1 Gv 4, 20).

Il mistero del Natale ci chiede di riconoscere e accogliere Gesù nei nostri fratelli, nella sua Parola, nei suoi Sacramenti: segni della sua presenza tra noi. È quanto ci propone Luca con il racconto dei due discepoli di Emmaus (cf. Lc 24, 13-35), una vera e propria catechesi in cui l’Evangelista annunciava alle prime comunità cristiane – e alla Chiesa di ogni tempo – in quale modo era possibile incontrare il Cristo, dopo il suo ritorno al Padre: è possibile trovarLo, dice Luca, nei fratelli che si affiancano a noi durante il cammino («Gesù in persona si accostò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo»); è possibile ascoltarLo nella Parola («spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui»); è possibile rivivere la Sua Pasqua nell’Eucaristia («allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero»).

 

Non facciamoci illusioni. Per essere autenticamente credenti è necessario essere anche – senza riserve – credibili. Solo testimoniando una carità “a tutto campo” potremo anche noi, come Cleopa e l’altro discepolo, partire «senza indugio» (Lc 24, 33) per annunciare agli uomini del nostro tempo il Vangelo della Verità, della Carità e della Bellezza. Perciò lasciamo che il mistero del Natale prenda dimora e rimanga in noi: sapendo che il Signore è il Dono più grande che ci è stato fatto e il Dono più grande che possiamo fare.

Permettetemi di concludere con uno scritto di Madre Teresa di Calcutta: nella sua storia il “Dio-con-noi” si è reso visibile e convincente, anche di fronte agli occhi, spesso velati dal dubbio, degli uomini d’oggi.

 

Chiediamo, dunque, allo Spirito che imprima in noi la stessa passione per il Signore e ci renda protagonisti autentici della nuova evangelizzazione. Affido ciascuno di voi, e le vostre famiglie, a Maria, l’umile vergine di Betlemme, perché aiuti tutti ad accogliere e annunciare, con grande gioia, il messaggio antico e sempre nuovo del Natale: oggi, proprio per noi, è nato il Salvatore: «Colui che era, che è e che viene» (Ap 4, 8).

 



[1] Teresa di Calcutta, Come una goccia nell’oceano. 100 pagine di Madre Teresa, Città Nuova, Roma 2000, p. 93.

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