Non dimenticare le vittime della mafia

Proprio in questi giorni ricorre l'anniversario della morte del magistrato Ciccio Montalto e del giornalista Mario Francese. Entrambi raccontarono Cosa nostra e i suoi intrecci politici e per questo vennero uccisi
Mario Francese

La memoria, non può essere un esercizio facoltativo. Abbiamo detto spesso che il “sangue dei martiri” versato per la nostra democrazia, non può essere considerato versato inutilmente. Allora, ed è bene dirlo subito, l’esercizio della memoria può anche sembrare ossessivo, irrispettoso, pedante… ma va esercitato, e soprattutto in occasione di ricorrenze non “ricordate” da altri.

 

Ciaccio Montalto. Proprio in questi giorni, la notte del 25 gennaio 1983, il giudice Ciaccio Montalto stava rientrando a casa, senza scorta e senza auto blindata e venne assassinato. Montalto era sostituto procuratore presso la Procura di Trapani. Appena tre giorni prima l’Associazione nazionale magistrati si era riunita a Palermo per chiedere al governo maggiore impegno nella lotta alla mafia. Ne avevano più di una ragione. Non era un momento favorevole per la Sicilia. Sono di quegli anni le uccisioni del segretario regionale del Partito comunista italiano Pio La Torre e del suo autista Rosario di Salvo; del magistrato Cesare Terranova e del suo autista Lenin Mancuso; del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile; del magistrato Gaetano Costa; del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro;  del commissario di polizia Boris Giuliano.

 

Ciaccio Montalto era impegnato in indagini sui clan dediti al traffico di eroina, al commercio di armi, alla sofistificazione di vini, alle frodi comunitarie e agli appalti per la ricostruzione del Belice dopo il terremoto. Fu il primo a comprendere la centralità di Trapani nella mappa della mafia siciliana. Per pagare fino in fondo il tributo alla memoria, va ricordato che il 23 luglio del 1981, l’assemblea degli avvocati e procuratori di Palermo aveva deliberato l’astensione dei propri iscritti dalle udienze che dovevano svolgersi nel circondario di Trapani. La magistratura penale era stata costretta a ricorrere ad avvocati del foro palermitano per assicurare la difesa d’ufficio nel processo a carico di Calogero Minore, il boss della zona. L’astensione dalle udienze consenti la scarcerazione de gli imputati per decorrenza dei termini.  La sua uccisione, mi sembra di poter dire, che più che vendetta, sia stata una classica azione di difesa da parte di Cosa Nostra nei confronti di uno dei più intelligenti e intuitivi investigatori di quel tempo. Un investigatore a tutto tondo, che era riuscito a portare in giudizio molti esponenti dei “Corleonesi” e del clan Minore.

 

In un convegno a Siracusa, nel marzo del 1983 il giudice Rocco Chinnici ( che sarà poi ucciso con un attentato di stile libanese il 29 luglio 1983), ricordava così Ciaccio Montalto:

«Conoscevo Ciaccio per il suo coraggio e soprattutto per l’impegno che egli poneva contro la criminalità politica, per lui non solo il terrorismo, ma anche la mafia era criminalità politica». «La mafia – continua Chinnici – è sempre stata reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere; ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. E’ fatale pertanto che la mafia cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere».

 

 

Mario Francese. Il 26 gennaio del 1979, sempre a Palermo, viene ucciso il giornalista del Giornale di Sicilia, Mario Francese originario di Siracusa. Negli anni settanta non esistevano collaboratori di giustizia e le stesse informazioni sulla struttura e sulle attività di Cosa Nostra erano scarse. Quale fu il merito di Francese? Narrare l’ascesa dei “corleonesi” e questo a Totò Riina non piaceva. I boss lo fecero uccidere, perché Francese nei suoi articoli svelava le fitte relazioni tra gli ambienti mafiosi e il mondo dell’economia e degli appalti pubblici nella Sicilia Occidentale. I nomi e i cognomi che fece Francese, sarebbero finiti negli atti giudiziari solo venti anni dopo.

Il ricordo, dicevo all’inizio, è un esercizio necessario perché non possiamo dire che vogliamo costruire un mondo migliore se non abbiamo nel cuore e nell’intelligenza la storia, anche se talvolta è difficile, pesante da ricordare.

La mafia è tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. Costi quello che costi. Ed il prezzo è stato ed è ancora alto. Ed ecco allora la funzione della memoria: ritrovare i motivi dell’impegno e del nostro agire nel voler diffondere, nelle nostre città, una cultura alternativa a questa tragicità. Una cultura che sappia mettere all’angolo la cultura mafiosa perché vuole mettere al centro l’altro, la persona. Una cultura che parla del dono di sé, dell’ascolto fino in fondo, del sincero interesse al bene comune.

Ingenuità, dirà qualcuno. Non penso. Il “sangue dei martiri” non è stato versato invano e ne sono la dimostrazione tanti accadimenti piccoli e grandi. A noi avere l’umiltà (che è anch’essa una virtù sociale) di saper cogliere quel che sta accadendo. A noi la responsabilità di non farci trovare distratti o troppo stanchi.

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