Nel segno del sette

Si conclude con l’ultimo film la saga di Harry Potter. Cosa c’è dietro il successo del maghetto?
Herry Potter

«È troppo lungo. Non ha mercato». Questo il verdetto di tre editori che ricevettero il manoscritto sul maghetto Potter. Era il 1995 e Joanne Rowling, scrittrice sconosciuta, incassò con amarezza il triplice no. Se la passava male lei, allora. Uscita da un matrimonio fugace e dal conseguente divorzio, tirava a campare assieme alla figlioletta con gli assegni di disoccupazione. Da quello stato non troppo allegro riusciva a sollevarsi grazie alle impennate della fantasia, sua compagna fin da piccina, da quando già alle elementari abbozzava storie fantastiche. In quel periodo grigio del dopo divorzio, spingendo il passeggino della figlia, creava nella sua testa e sui tavoli d’un pub il mondo favoloso della scuola di magia di Hogwarts, sede delle vicende di Harry Potter e compagnia bella.

 

Sono passati 15 anni. I tre editori, come tanti manager attuali, hanno dimostrato scarsa lungimiranza. La saga di Harry Potter è stata tradotta in 67 lingue e ha venduto circa 500 milioni di copie. Harry Potter e i doni della morte ha frantumato i record, vendendo 72 milioni di copie nel primo week-end. Il libro più venduto nella storia dell’editoria. La Rowling è diventata la donna più ricca del Regno Unito, più della regina Elisabetta. Ha incassato decine di premi letterari. La Warner Bros ha fatto una fortuna con i film sul maghetto di Hogwarts. Mentre molti, specialmente nella nostra Italia editoriale, affermano ancora che la letteratura per ragazzi non fa business.

 

Sette è il numero del successo di Potter. Sette sono i libri della saga, sette i film da essi tratti (a meno dell’ultimo che per motivi di lunghezza verrà diviso in due parti), sette gli anni in cui si svolge il percorso narrativo, uno per ogni libro della serie: da quando Harry Potter, orfano undicenne che vive con gli sgradevoli zii adottivi, apprende della sua condizione speciale e inizia a frequentare la scuola di Hogwarts, a quando diciassettenne conclude lo scontro con il malvagio Voldemort.

Perché il successo? Ho fatto questa domanda a mia figlia, che i sette libri – più di 600 pagine a botta – se li è divorati tutti. «Perché è una storia bella. Avvincente». Risposta banale, ho pensato. Che non mi aiuta a capire. Poi ho riflettuto. È proprio così. Il successo di Harry Potter è dovuto alla semplice capacità d’inventare una storia articolata, che ti prende. Con alcuni accorgimenti. A differenza d’altre saghe fantasy, i cui protagonisti appartengono a mondi immaginari (come l’epopea di Narnia), Harry Potter abita il mondo dei contemporanei.

 

Ma la sostanza di fondo è quella di sempre: la fiaba. Che affonda le sue radici nell’anima del mondo, che le religioni hanno cercato di spiegare. Il legame tra fiaba e religione è fortissimo. Nella fiaba, come nella religione, c’è la lotta fra il bene e il male, c’è la debolezza dei protagonisti e la loro possibilità di redimersi, c’è l’intuizione che le apparenze nascondono realtà sorprendenti, c’è la consapevolezza che la fede porta a far accadere fatti straordinari – miracoli nelle religioni, magie nelle fiabe – che stravolgono le noiose leggi della natura, c’è la certezza che alla fine il bene trionfa, che non è possibile che vinca la tristezza.

 

A suggellare quest’associazione tra fiaba e religione c’è sulla copertina dell’ultimo Potter una frase stampata a grandi lettere. È presa dall’Apocalisse: «L’ultimo nemico a essere sconfitto sarà la morte». Solo questa ricetta davvero semplice –  fiaba, ampiezza di racconto e attualità – sta alla base del successo di Harry Potter. Che ora ci saluta.

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