Nei rapporti, la ricetta dello star meglio

Nel secondo ed ultimo  appuntamento del mese con Le fragilità dispettose di Città nuova, gli autori analizzano le relazioni: se vissuta nella qualità, possono fungere da valore aggiunto per imparare a convivere con la sofferenza
le fragilità dispettose

Avere una sorta di "ricettario" per riuscire a superare qualsiasi di tipo di sofferenza sarebbe bellissimo, ma il dolore vissuto nel momento presente è davvero l’unica via per uscirne risanarti. Uno dei segreti per la buona riuscita sta nei rapporti, nell’amore vicendevole e nella carità reciproca. C’è sempre l’altro che può sollevarci un po’ dal carico che stiamo trasportando e il primo punto di partenza sta nel domandare aiuto: atto non particolarmente semplice.

 

Ma la carità non è soltanto in chi la elargisce, ma anche, e soprattutto, in chi la chiede. La carità, donata da chi domanda aiuto, rende l’altro forte, lo eleva alla grandezza di chi può trovarsi nella posizione di potere donare. Certo, non si può pretendere che l’altro ci risolva i problemi, ma l’altro può ascoltarci, sostenerci per quello che può. Insomma bisogna ripartire da questa fiducia nella relazione… per imparare a superare un dolore e con-viverci. È quanto contenuto nel libro per i tipi di Città nuova, Le fragilità dispettose. Come non perdersi di vista nella sofferenza. Pillole di riflessioni sul valore dell’altro, nel cammino con l’altro, anche attraverso la sofferenza.

 

«La sofferenza non guarda alle diversità di genere, di ceto, di istruzione. È sofferenza e basta. Ci spoglia di quello che abbiamo, ma non di quello che siamo, e cioè uomini. E allora, per continuare a pensare nell’ottica relazionale, concludiamo con un’ultima riflessione. La sofferenza dell’uomo di oggi, con il suo smarrimento, si va ad associare ad altre sofferenze, senza tempo, senza epoca. Ma in ogni momento, quando la sofferenza si incontra con la solitudine, il logorio aumenta, il senso di vuoto prende il sopravvento, la malattia diventa regista e attrice della nostra vita (…).

 

«Ma la frase che vorremmo sentire più spesso o che dovremmo dire più spesso è forse: «Vorrei che ci incontrassimo veramente».Ogni momento della nostra vita è intimamente legato a quello delle persone con cui viviamo. Se nelle relazioni che instauriamo ci sentiamo liberi di comunicare il nostro stato d’animo, se sentiamo che l’altro si prende cura di noi e ci comprende, se la relazione ci fa stare bene, la nostra energia verrà fuori. Se riusciamo ad affrontare la sofferenza con dignità e forza, liberandoci dalla tentazione di negarla, non le lasceremo campo libero. Nel lavoro che svolgiamo, come psicoterapeuti, quotidianamente entriamo in contatto con persone che soffrono. Quando queste persone appartengono ad una famiglia “serena”, quando sentono di essere volute bene, quando riescono o imparano a non tenere per sé il proprio dolore, a condividerlo, il peso diventa più leggero e il dolore un momento per ritrovarsi.

 

«Con i teorici della Gestalt diciamo che non possiamo e non potremo mai guardare all’uomo come a un organismo isolato, perché esso quotidianamente, continuamente, momento per momento, è il “risultato” di un’interazione con il suo ambiente. Se l’albero si ammala dobbiamo guardare alle radici, alla terra, all’aria, agli insetti, agli alberi vicini, all’acqua che scorre nel campo, alle caratteristiche della pioggia, allo stesso modo l’ampiezza del nostro respiro, il nostro modo di muoverci, l’espressione del volto, cambiano in base alla persona con cui ci troviamo, rivelando il nostro disagio o il nostro benessere.

 

«La relazione è il futuro indispensabile non perché decidiamo che sia così, perché è già così. Le nostre relazioni saranno sempre sofferte, per i nostri dolori personali o per le incomprensioni, ma potremo decidere quanto rimanere ancorati a noi stessi e quanto spostarci verso l’altro. Dovremmo renderci conto del fatto che quanto accade in noi dipende anche dalla presenza dell’altro, così come quanto accade nell’altro dipende anche da noi. Se siamo poco consapevoli di questo, alle sofferenze che già la vita ci riserva, nel suo naturale corso delle cose, si aggiungerà quella dell’individualismo.

 

«In un classico cinematografico di Frank Capra, La vita è meravigliosa (1946), film tratto dal romanzo The Greatest Gift di Philip Van Doren Stern, ricorderete lo stupore del protagonista nello scoprire l’importanza delle relazioni, anche di quelle che sembravano più banali. Brevemente, per chi non conoscesse la trama, il film narra di un uomo che, trovandosi in gravi difficoltà economiche, decide di togliersi la vita. Un aspirante angelo lo “salva”, ma l’uomo non apprezza questo regalo e così impreca: «Sarebbe meglio che non fossi mai nato!». L’angelo esaudisce questo suo desiderio e così il nostro protagonista, ritornando a casa, non è più riconosciuto da nessuno, appunto perché mai esistito, e ha modo di costatare come sarebbe andata la vita per gli altri se lui non ci fosse mai stato.

 

«Quando prende consapevolezza del dono della vita, al di là dalle sue sofferenze, l’angelo gli restituisce il suo posto nel mondo e l’uomo apprende che la sua presenza in quel contesto era significativa, così come lo era l’esistenza degli altri per la sua vita. Il calore del vicinato, nel finale romantico del film, risolverà anche il suo problema economico. Al di là dei facili escamotage, appartenenti più al mondo della finzione che non della realtà, più concretamente, per porgere il braccio alla sofferenza e non sentirci invadere e distruggere da essa, dobbiamo sentire di poterla sostenere. E per fare questo è meglio chiedere rinforzi. La relazione non ci “salva” dalla sofferenza, ma può costituire punto di partenza e punto di arrivo se viene vista come “priorità” assoluta. Se acquisiamo una mentalità relazionale, saremo naturalmente portati ad una tensione diversa che aprirà a nuove prospettive (…).

 

«Il malessere dell’uomo di oggi è un problema anche nostro e le relazioni che instauriamo possono diventare un polmone che dà ossigeno attorno a noi. Come propone Bauman in Modernità liquida, «è indispensabile la necessità della condivisione tra gli uomini, che non sia tanto il sapere delle questioni private dei personaggi pubblici, ma di scrollarsi dallo stato di spettatore per saper dire “sì” o “no”, e coltivare al contempo quello spazio comune per “riprogettare e ripopolare l’agorà: il luogo di incontro, dibattito e negoziati tra l’individuo e il bene comune, pubblico e privato”» (Bauman 2008, p. 35).

 

«È possibile per noi, donne e uomini di oggi, fare questo salto di qualità? E invece di chiedere ai nostri figli il voto che hanno preso, forse dovremmo chiedere più spesso se i rapporti con i loro compagni e gli insegnanti sono sereni? Possiamo rifiutarci di guardare un programma televisivo se trasmette contenuti stupidi o violenti? Possiamo rinunciare a un giorno di lavoro o di pulizie di casa per trascorrere una giornata insieme alla famiglia in modo diverso?

 

«(…) Preservare il rapporto con l’altro è un compito difficile, ma possibile. Coltivare questo terreno dove condividere le sofferenze è importante. Capire se e perché non riusciamo a farlo è indispensabile per evitare di soffermarci sul limite dell’altro e guardare, invece, al nostro. L’uomo purtroppo dimentica di avere tantissime possibilità e scelte da poter effettuare. Le nostre risorse sono innumerevoli (…)».

 

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