Mostri sacri

L’idea che sta alla base di Sacred monsters è quella di smitizzare due mostri sacri della danza internazionale. Mostrarsi come persone, colti anche nella loro umanità. Per questo oltre che a danzare, Sylvie Guillem e Akram Khan, accomunati da una formazione classica – rispettivamente occidentale e orientale – e dalla necessità di sperimentare, si raccontano. Con serie considerazioni e divertenti aneddoti sulla loro infanzia. Lui parla della paura che aveva di perdere i capelli e della ricerca spirituale di Krishna; lei, appassionata dei fumetti di Charlie Brown, si immedesimava in Sally e nelle sue domande sul senso delle cose. Fino a chiedersi: È importante e necessario quello che faccio, cioè danzare?. E a trovare risposta nella capacità che ancora ha di meravigliarsi, come una bambina. È un dialogo artisticoumano fra culture che cercano un’integrazione, un’assimilazione l’uno nella tradizione dell’altro. Lui, anglo-pakistano, coreografo e ballerino di punta della danza contemporanea forgiata sulla tecnica indiana katak; lei, fuoriclasse della danza accademica e musa ambita dei grandi coreografi contemporanei, dal fisico impareggiabile che armonizza braccia e gambe con una elasticità muscolare sorprendente, modellata su una tecnica perfetta. Insieme i due magnetizzano. Con grazia, potenza, e autoironia. Sulla bianca scena glaciale, scaldata dalla loro presenza, dapprima ciascuno con un assolo (vedi il vorticoso scampanellio dei piedi di Khan, e l’eterea flessibilità della filiforme Guillem), poi in duetti di strepitosa inventiva coreografica e di esecuzione, sulla musica ipnotica e travolgente di un quintetto multietnico. Incollati alle mani i due ondeggiano con le braccia, si intrecciano, si incurvano; poi si distaccano, si fronteggiano con movimenti meccanici, a scatti, come pupazzi a molla di un divertente fumetto. Antagonisti di un duello, sfoderano le loro qualità come arma per affermarsi e contendersi un’identità, manifestano errori e cadute; per poi riconciliarsi, fondersi e correre insieme verso la meta della bellezza conquistata. Giuseppe Distefano Al teatro Olimpico per il Romaeuropa Festival e l’Accademia Filarmonica Romana. LA FORZA DELL’ABITUDINE Quanto la musica sia stata importante per il drammaturgo austriaco Thomas Bernhard, lo si coglie soprattutto ne L’ignorante e il folle, dove un soprano si vota per la vita alla mozartiana Regina della notte, e ne La forza dell’abitudine dove il direttore di un circo è ossessionato dall’esecuzione del Quintetto della trota di Schubert. Concerto che prova da più di vent’anni, senza successo, di far suonare ai suoi inadempienti artisti, sempre interrotto e rimandato per incidenti, dissapori, inquietudini. Tutto ruota attorno alle sconclusionate prove dell’impossibile quintetto che rappresentano, per il dissennato e tirannico padrone, l’ultimo tentativo di dare armonia a un mondo divenuto per lui incontrollabile. È una comicità amara e paradossale, nichilista, che si fa metafora della vita, dell’utopia dell’arte, dell’impossibilità del raggiungimento della perfezione. Prima regia di Alessandro Gassman, anche protagonista, che ravviva il clima con movimenti scenici e numeri da vero circo dentro una tenda scorrevole. Truccato da vecchio calvo, graffia con la voce e con il corpo rattrappito, sancendo una coraggiosa prova di maturità.

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