Minniti: se le parole perdono peso

Il diffondersi dei media digitali favorisce i discorsi in libertà dei politici. Che dovrebbero invece mantenere sempre una chiara linea di rigore

È con una certa sorpresa e con non poca preoccupazione che ho ascoltato assieme a tutti voi le parole televisive del ministro degli Interni Minniti, che affermava di aver temuto per la «tenuta democratica» del Paese di fronte all’arrivo delle barche di immigrati. Sono rimasto stupito, assieme a molti di voi, nel merito – mica le barche dei migranti sono corazzate, mica le proteste di qualche sindaco e di gruppi di cittadini possono destabilizzare lo Stato, mica l’esercito italiano ha tendenze golpiste (un po’ di più ne ha forse qualche funzionario di polizia) –, ma anche nella forma, perché tali affermazioni sono pericolose se date in pasto all’opinione pubblica all’ora dei telegiornali. D’accordo, mi si dirà che Minniti aveva “annusato” il vento di rivolta contro gli immigrati che arriva da tante parti d’Italia, anche perché fomentato da trasmissioni televisive senza alcuno spessore giornalistico. Ma le sue parole sono apparse in ogni caso eccessive: forse ha dubitato della tenuta della politica governativa sulle migrazioni, non dello Stato…

Ma siamo nell’epoca delle fake news, cioè delle menzogne a mezzo stampa, siamo nel tempo dei tweet presidenziali che mirano alla pancia della gente, siamo nel secolo della verità-fai-da-te, per gli eccessi dell’individualismo mediatizzato. E allora una dichiarazione grave come quella di Minniti scivola via come acqua fresca, come una delle tante parole in libertà dei politici di turno. Forse è meglio così, perché pochissimi – tra i quali il ministro della Giustizia Orlando e prima ancora del ministro delle Infrastrutture Delrio – hanno sottolineato almeno «l’inopportunità» oltre che la pericolosità di tali parole.

Si presenta allora un duplice problema, sia per chi fa certe affermazioni avendo un ruolo non solo politico ma istituzionale che per chi invece le ascolta senza coglierne la gravità. In entrambi i casi si tratta di un problema di formazione e di etica: di formazione, perché sia i ministri che parlano in libertà che gli utenti che li ascoltano alla tv non hanno coscienza piena della portata e dei meccanismi dirompenti dei nuovi media digitali; ma anche di etica, perché tra i doveri primari dei politici di uno Stato democratico c’è quello di gestire lo Stato senza mai soffiare sul fuoco delle possibili conflittualità tra gruppi di cittadini, senza mai favorire derive populiste e sommarie, mentre tra gli ascoltatori dovrebbe vigere sempre il dovere di non prendere come oro colato tutto quello che si dice alla tv.

«Tenuta democratica» è espressione usata in tempi nemmeno tanti lontani da un presidente del Consiglio italiano di centrodestra sotto inchiesta, da un Lula, presidente brasiliano nella stessa situazione, o dal presidente filippino Duterte, accusato di metodi polizieschi anticostituzionali. È una minaccia, quindi, spesso brandita per poter giustificare successivi atti d’imperio al limite del rispetto dei codici legislativi e dei diritti umani. Speriamo che non sia il nostro caso, caro Minniti.

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