Michelangelo, un diario spirituale

Riapre dopo sette anni la piccola cappella vaticana. Gli ultimi affreschi del maestro. Tormento e speranza.
Michelangelo

Da giovane, avrebbe impiegato quattro mesi per dipingere i due grandi riquadri con la Caduta di san Paolo e la Crocifissione di san Pietro. A settant’anni, malato, oberato di lavoro, oppresso da una vera “notte spirituale”, Michelangelo vi lavora per sette anni, fino al 1550. Si prende delle pause, poi riappare sui ponteggi, da solo: qualche figura scontornata, come un pensiero sulla parete umida. E alla fine le note del diario del vecchio ostinato si schiudono, a rivelare il libro della sua anima.

La intravedo dalla porta socchiusa, la capella parva, destinata da Paolo III Farnese al conclave e alla liturgia privata dei pontefici (com’è tuttora). E subito scorgo l’azzurro oltremarino del cielo, quasi velato, dato a larghe campiture. Quando poi la porta si spalanca e si entra nell’ambiente – riportato alla sistemazione di Gregorio XIII, a fine Cinquecento –, si resta senza fiato.

 

L’avevo vista un decennio fa, la Paolina, con i colori bassi, le luci smorte: una desolazione immensa. Ora la ritrovo con un cromatismo forte, corpi di una plasticità esibita: il ricordo del Giudizio nella “cappella magna”, la Sistina, a pochi metri di distanza, è immediato. Eppure, qualcosa è cambiato in Michelangelo. Il discorso ora si fa intimo, senza per questo cessare di essere universale. I colori sono morbidi: le gradazioni del viola sono struggenti. Le scene si svolgono su paesaggi astratti. C’è rumore e silenzio insieme. Ci sono figure che accennano col dito al silenzio, o riflettono, o scendono le scale dall’altura su cui si sta per inchiodare Pietro. È accaduto o sta per accadere qualcosa di grande, cui nessuno può restare indifferente.

La Conversione di Paolo, dipinta per prima, si incentra sul gigantesco apostolo che frana a terra, soccorso da un servo: gli occhi già ciechi, sotto un Cristo in picchiata dal cielo lasciando una scia bianca: è la luce della grazia che atterra Paolo. Basta sottomettersi a questa, abbandonarvisi per trovare pace? Il Cristo-Giove attorniato da nuvole di giovani ignudi – la creazione rinnovata – è forte: non si sente la sua “voce”, se ne scorgono gli effetti. Paolo abbattuto, il gruppo dei soldati stordito: chi fugge, chi si tura le orecchie. Intorno, un deserto metafisico, con Damasco, apparizione lontana, dipinta all’ultimo momento sopra il paesaggio. C’è agitazione, ma Michelangelo blocca i corpi, le espressioni fra l’attonito e l’incerto. Ferma il nitrito del cavallo imbizzarrito che “sfonda” la parete. Il restauro infatti ha rivelato l’eccezionale profondità del dipinto, che scala dalla dimensione gigantesca in primo piano a quelle minori sul fondo, perdendosi poi in un paesaggio che sbianca nell’infinito.

Ogni figura è un pezzo di diario, la nota di un giorno (le “giornate” dell’affresco infatti sanno di rapidità saltuaria), di un Michelangelo che oscuramente cerca i bagliori della grazia.

 

A destra dell’entrata, Crocifissione di Pietro. Sotto un cielo solcato da una nube grigia, l’altura con la folla che assiste al martirio. Ma Michelangelo, genialmente, non raffigura la crocifissione (i chiodi sono un’aggiunta tardiva, lasciata dai restauratori in ossequio alla “tradizione”), bensì l’attimo in cui l’apostolo si stende volontariamente sulla croce, che i soldati stanno sollevando con sforzo evidente, per cui il corpo oscilla, senza cadere. Il pittore ha bloccato il momento in cui Pietro si offre alla morte: l’attende dondolando paurosamente – ma non cade – ed ha il tempo per voltarsi e fulminare con lo sguardo chi sta entrando: essere cristiani – e pontefici – significa dare la vita…

Nella fissità di una sacra rappresentazione “eterna”, Michelangelo vede i soldati salire le scale verso il monte, altri fermarsi a chiedere o a pregare o a rabbrividire attorno al santo. Guarda il gruppo che scende, e in particolare il gigante pensieroso: un autoritratto spirituale del pittore? Verso di noi, alla base dell’affresco, un gruppo di donne dolenti ci osserva, gli occhi sbarrati, o dà un ultimo sguardo al martire. È una vecchia, che anticipa le donne rugose di Caravaggio, e che il restauro ha rivelato essere l’estrema figura dipinta da Michelangelo.

Nell’assordante silenzio di questo teatro dell’anima, anche Michelangelo, vecchio, guarda alla croce: è qui la salvezza, come dice nei versi e negli schizzi di questi suoi anni solitari, in cui gli affetti più cari (Vittoria Colonna, il gruppo degli “Spirituali”, il fedele servo Urbino, il “suo” papa Paolo III) vanno scomparendo. Lui, il pittore, che forse si ritrae nell’uomo accanto al capitano a cavallo sulla sinistra, vive in una tensione terribile. Ci sono occhi sbarrati o adombrati nei personaggi circostanti. Pietro sta per morire. È solo, di Cristo nessuna traccia visibile. Ci sarà poi la salvezza?

Michelangelo ci costringe a riguardare Paolo, l’accecato, lo stremato dalla grazia. È allora nella sola fides che ci si può abbandonare senza rimanere delusi. Oltre le variazioni dei colori che trasmigrano gli uni sugli altri, c’è un mondo astratto dove ogni figura è un moto dell’anima, in cui ciascuno si ritrova, perché il cuore del vecchio Michelangelo si va allargando, nel dolore, ad accogliere tutti nel suo vastissimo paesaggio.

Ma non c’è soltanto tormento. Michelangelo, che lotta con Dio e non più con gli uomini – come ha sempre fatto durante la sua vita tempestosa –, sa che deve cedere e lasciarsi ghermire dal Cristo immenso, per ripercorre con lui la scia di luce che ha travolto Paolo. Perciò i due affreschi rappresentano un testamento spirituale del Maestro, che ripercorre con i suoi giganti ogni emozione umana di fronte alla morte e al divino.

 

Fa soffrire la miopia dei censori preoccupati di fornire perizoma e chiodi ad un Pietro che si immola, senza intendere che nel martire Michelangelo aveva espresso la nudità interiore dell’uomo che si arrende alla grazia, ponendo fine ad una irrequietezza che noi del secolo ventunesimo possiamo comprendere, perché ci appartiene. Ma, prima di noi, lo ha capito un altro Michelangelo, il Caravaggio, che nella romana chiesa di Santa Maria del Popolo ha ripreso le due scene, ravvicinandole alla nostra portata.

Uscendo dalla cappella vaticana, ci si sente traballare e nello stesso tempo sazi. La verità del diario di Michelangelo è troppo grande per venire riassorbita in fretta e troppo universale per essere solo nostra. Egli, infatti, nell’aria rarefatta di questi dipinti che alla fine ci inteneriscono per il dolore che vi è sparso e la fatica della ricerca, sembra avere davvero colloquiato con Dio. 

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