Mi fa male l’italiano

Il Paese in una selva oscura di errori (orrori?) di ortografia e sintassi. I rimedi dell’Accademia della Crusca.
Vittorio Sedini

Non tutti sanno chi era Alekandr Solgenitsin, e passi. Non tutti sanno cos’è un gulag – «campo di concentramento e di lavoro coatto per prigionieri di guerra o detenuti politici», spiega il dizionario –, e passi (ahinoi!) anche questo. Ma allora conviene guardarsi bene dallo scrivere che il narratore russo abitava in un gulasch, sostanzioso piatto tipico ungherese a base di carne, lardo, cipolle, carote, patate e paprica. Ha scritto Arcipelago Gulag, ma ha trascorso l’ultimo periodo della vita in una tranquilla dacia.

Un «Solgenitsin che ha vissuto in un gulasch» non suonerebbe male come battuta in uno spettacolo. Spiace, invece, trovare la frase tra le castronerie disseminate nei compiti d’italiano degli studenti delle scuole superiori del Bel Paese. Più che effetto di un’indubitabile scarsa applicazione sui libri, sembra la conseguenza di una sosta troppo distratta davanti al televisore o a Internet, ormai unica fonte (per troppa gente) di un qualche apprendimento. Si ricorre perciò non tanto alla memoria o alla logica, quanto all’emotivo riflesso uditivo di certe sonorità: allora gulag o gulasch «per me pari son», come si canta nel Rigoletto.

Non stia dunque a sottilizzare il docente cultore dei Promessi Sposi se la timida «Lucia fu rapita dall’Anonimato» e non dal fiero e brutale Innominato. Basta intendersi, in fin dei conti. Anche a matematica è sufficiente l’assonanza: «Si approssima per decesso», e se l’insegnante non crepa di colpo è perché ha un cuore in salute e coglie che non c’è una distanza siderale dall’appropriato «eccesso».

 

«Quisquilie, pinzillacchere», direbbe il grande Totò. Eh, sì, ben altri strafalcioni vengono commessi rispetto ai precedenti esempi. L’uso del congiuntivo (per di più corretto) è ormai una prerogativa di una ristrettissima élite. Se poi ci addentriamo nella selva oscura delle bestialità in fatto di sintassi e di ortografia, è oltremodo preoccupante lo stato di salute linguistico del Paese.

Si dirà (erroneamente): nel clima generale di assoluta libertà individuale, ognuno scrive e parla come vuole, all’insegna del “basta capirsi”. Forse molti hanno in mente la frase del filosofo tedesco Theodor Adorno: «Chi scrive bene è scientificamente sospetto», e allora hanno deciso di evitare di essere scoperti.

Ne sa qualcosa la commissione giudicatrice di un concorso per un posto di vigile urbano bandito dal comune di Pitigliano, Grosseto. Si sono presentati 61 candidati. Alla lettura delle tracce della prova scritta, trenta abbandonano. La commissione suppone che siano rimasti i migliori: errore. Alla correzione degli elaborati, si ricrede. Sono tanti e tali gli strafalcioni, che tutti i concorrenti rimasti vengono bocciati. Tra loro, alcuni laureati: sob!

 

Purtroppo non è l’unico caso. Ma nessuno se ne preoccupa. Anzi, si va radicando sempre più un atteggiamento di generale superficialità con cui si guarda alla nostra lingua. Eppure di catastrofe culturale si parla nelle università in seguito anche ai recenti test di ingresso nelle più diverse facoltà: molti atenei hanno dovuto organizzare corsi di recupero di italiano per gli italiani.

Scrivere correttamente vuol dire pensare correttamente. Ed è proprio quello che più serve oggi ai giovani per trovare lavoro e al Paese per trovare un domani. Il filologo Cesare Segre conosce bene le carenze dei giovani: «Non sanno usare la lingua: riassumere, raccontare, riferire. Questo significa che non hanno il dominio della realtà: e se non sei in grado di esprimerti, non sei capace di giudicare».

 

Le due maggiori accademie italiane, della Crusca e dei Lincei, hanno lanciato un appello sulla lingua italiana, sottolineando che «una padronanza medio-alta dell’italiano è un bene per il Paese e il suo sviluppo culturale ed economico».

Di chi le responsabilità? In famiglia si parla correttamente? Quanto è influente il linguaggio televisivo? E la scuola? L’Accademia della Crusca non mostra dubbi: gli insegnanti non vantano alcuna competenza linguistica e tecnico-didattica specifica; nelle ore di italiano si insegna letteratura più che lingua. Serve allora «un decisivo rafforzamento dell’italiano nell’insegnamento scolastico».

Insieme alla scuola, pari responsabilità alle università e ai governi. Ma «la colpa principale – precisa con ironia Francesco Sabatini, già presidente della Crusca – è dei regolamenti ministeriali (quindi governativi) che non costringono le facoltà universitarie a predisporre corsi adeguati e vincolanti di formazione».

 

Il sommo Dante, resuscitato da Benigni con le cantiche tornate popolari, starà da qualche parte gettando nei cassonetti della spazzatura tante pubblicazioni scritte in un pessimo italiano come spesso si sentono anche in televisione. Ma, ne siamo certi, ripescherà i testi di grammatica italiana, ritenuti inutili, per ridare lustro al patrio idioma approfittando dell’urgenza di tornare a dialogare tra tutti.

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