MbS, Vision 2030: come cambia l’Arabia Saudita

Il progetto “Saudi Vision 2030”, annunciato fin dal 2016 dal principe Mohammed bin Salman (MbS), poi erede al trono saudita e da settembre scorso anche primo ministro, si sta dispiegando come un disegno molto ambizioso e allo stesso tempo inquietante
MbS Arabia saudita
Il principe ereditario e primo ministro dell'Arabia Saudita Mohammed bin Salman Al Saud durante il vertice del G20 a Nusa Dua, Bali, Indonesia, martedì 15 novembre 2022. (Mast Irham/Pool Photo via AP) Associated Press

Lo scopo dichiarato di “Saudi Vision 2030” – annunciato fin dal 2016 dal principe Mohammed bin Salman (MbS), poi erede al trono saudita e da settembre scorso anche primo ministro – era fin dall’inizio quello di diversificare l’economia dell’Arabia Saudita; riducendo la dipendenza quasi totale dal petrolio per sviluppare altri settori, con un occhio particolare al turismo e alle attività ricreative e artistiche. Mentre il progetto si dispiega, rivela sempre più le impostazioni culturali e socio-politiche che ne sono alla base.

Il 22 febbraio, per esempio, in Arabia si è festeggiato a livello nazionale il “Giorno della Fondazione”, istituito lo scorso anno. La celebrazione introduce un nuovo criterio per considerare la dinastia saudita, celebrata per quasi 3 secoli soprattutto per l’identificazione (che risale al 1744) con la rigida dottrina islamica del wahhabismo di Stato. La nuova festa sposta l’accento sulla fondazione del primo stato saudita (1727), quando Mohammad Ibn Saud diventò emiro di Diriyah (oggi un quartiere di Riyad). L’ottica di MbS e della sua “Vision 2030”, insomma, ridefinisce le coordinate culturali del regno saudita: meno wahhabismo e più nazionalismo. O se si vuole: meno potere al clero wahhabita e rafforzamento del primato del sovrano.

Come sintetizza efficacemente Eleonora Ardemagni, in un articolo del 23 gennaio scorso su affarinternazionali.it: «Vision 2030 non è solo una strategia economica, ma è anche un progetto nuovo di società, con profonde implicazioni sociali, religiose, culturali e di politica estera. La transizione post-oil è parte di un processo più ampio di ridefinizione del rapporto fra stato e società, nonché dell’identità nazionale saudita”. Ma la premessa a queste prospettive è che finora l’unico cambiamento ammesso è quello consentito dall’alto.

Per quanto riguarda i progetti, è dei giorni scorsi l’annuncio da parte del principe MbS di un nuovo inserimento urbanistico a Riyad, la capitale del regno saudita. Si chiama New Murabba e prevede la realizzazione di un nuovo distretto di 19 kmq con al centro un edificio indicato come Mukaab, una delle più grandi strutture mai costruite al mondo: un cubo lungo, largo e alto 400 metri (il rimando alla Kaaba, l’edificio sacro di La Mecca, è evidente, ma dalle dimensioni moltiplicate di 30-40 volte).

New Murabba prevede 104mila unità residenziali, 9mila camere d’albergo, 980mila mq di spazi commerciali, 1,4 milioni di mq destinati ad uffici, 620mila mq per attività di tempo libero (tra cui cinema, teatri, sale per concerti), e 1,8 milioni di mq per spazi dedicati a strutture comunitarie e ad un’università internazionale. Un investimento iniziale, quindi, da svariate centinaia di miliardi di dollari. E successivi costi di gestione e manutenzione incredibili, che suppongono afflussi da capogiro, molto più elevati degli attuali 18 milioni di visitatori (al primo posto tra i Paesi arabi nel 2022 secondo i dati Wto, seguono gli Emirati Arabi Uniti con 14,8 milioni e il Marocco con 11 milioni). L’ambizione di Vision 2030 è quella di raggiungere 100 milioni di visitatori entro il 2030. Pandemie e guerre permettendo, viene da aggiungere.

Un’altra impresa ciclopica già avviata è il Red Sea Project, dalle sponde del Mar Rosso di fronte a Sharm el-Sheikh fin dentro la provincia di Tabuk, nel nordovest del Paese. Un progetto, si favoleggia, da 500 miliardi di dollari; in cui si inserirebbe una città futuristica, Neom, che dovrebbe estendersi in linea retta per 170 Km su un’area 33 volte quella di New York. La zona non è però disabitata: ci vivono da tempo gli Howeitat, una tribù beduina famosa per aver sostenuto la rivolta araba contro i turchi nel 1918, quella dei tempi di Lawrence d’Arabia e dello sharif al-Husayn. Pare che molti Howeitat non siano stati molto felici dei progetti sauditi sulla loro terra. E sarebbero stati espropriati e sfrattati senza troppe cerimonie con rimborsi a quanto pare irrisori.

Proprio nei giorni scorsi (16 febbraio), un’organizzazione araba per i diritti umani, Alqst, ha pubblicato il rapporto The dark side of Neom (il lato oscuro di Neom) in cui denuncia che 47 Howeitat sono stati arrestati per resistenza allo sgombero delle loro terre. Secondo Alqst 3 sono stati condannati a morte, 15 a pene fra quindici e cinquanta anni e 19 sono detenuti in attesa di giudizio, i restanti scarcerati. A prescindere dallo specifico, la disinvoltura e la discrezionalità del ricorso alla pena di morte nel regno saudita è purtroppo ben nota: nel 2022 ci sono state almeno 147 esecuzioni capitali.

E se è vero che con l’avvio di “Vision 2030” sono migliorate molte cose (per esempio meno disoccupazione giovanile, un po’ più di accesso al lavoro e di diritti per le donne, ecc.), la scommessa su un futuro sganciato dal petrolio è fortemente condizionata da progetti molto ambiziosi e altrettanto azzardati; oltre ad un quadro sociale e dei diritti umani tuttora sottoposto a pesanti limitazioni e imposizioni, anche se meno religiose di prima.

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