Lui mi attendeva in loro

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Devi innamorarti di lui!. A sentirsi dire così da don Flavio – che al tempo stesso le indicò una immagine del Crocifisso -, Bruna si prese quasi un colpo. Come era possibile questo per una come lei? È vero, era cristiana, ma… un rapporto così intimo e sentito con Nostro Signore le sembrava al di là della sue possibilità. Don Flavio però non si limitò a quell’invito verbale: pian piano introdusse questa sua parrocchiana nella esperienza evangelica di una comunità, quella dei Focolari, dove innamorarsi di Dio in risposta al suo amore infinito diventava possibilità quotidiana attraverso l’attenzione e il servizio al prossimo. E Bruna prese fuoco a tal punto da contagiare del suo entusiasmo anche i propri familiari, chi più chi meno: Giorgio, il marito ferroviere, e i due figli Cristiano e Michela. E ancor più quando alla fine del ’90, in risposta ad una sua richiesta, ricevette da Chiara Lubich questa frase paolina come aiuto per il suo impegno di cristiana: Tutto posso in Colui che mi dà forza, intendendo appunto Gesù crocifisso e abbandonato; insieme ad un nome nuovo da aggiungere al proprio: Maria. Un invito, questo, ad imitare lei essendo madre verso chiunque le sarebbe capitato di incontrare, specialmente coloro nei quali ravvisare in maniera più evidente il volto dell’Abbandonato. Bruna stava ormai quasi facendo l’abitudine alle sorprese di questo Dio amore che l’aveva conquistata, ma non avrebbe certo immaginato come gli si sarebbe presentato. La prima volta, fu circa un mese dopo la risposta di Chiara Lubich, nella persona di un carcerato. Ma a questo punto conviene lasciare la parola a lei stessa. Era il giorno di Natale del 1990 quando Stefano telefonò a casa nostra con una notizia inaspettata: Sono stato liberato con l’indulto, non so dove andare… potrei venire da voi?. C’è da premettere che già due-tre volte, nel periodo natalizio, ero stata con don Flavio ed altri della parrocchia a visitare dei carcerati. La prima volta ero piuttosto agitata: Mamma mia, non ho mai messo piede in un carcere, e poi cosa ci va a fare lì una come me che ha soltanto la quinta elementare? Fossi un’assistente sociale… . Sempre don Flavio, però, mi aveva aiutata a vincere le mie riserve: Andiamo lì ad amare Gesù presente in quei fratelli…. Non dimenticherò mai quel primo incontro così fraterno con un gruppo di detenuti. Conversavamo con loro animatamente, ma per un at- timo non ho sentito più nulla: ero sola con quel Gesù che ero andata ad amare in loro. Così, appunto, avevo conosciuto Stefano, e iniziato con lui una regolare corrispondenza. Ed ora ricorreva a noi per chiederci ospitalità. Non sarebbe stato un azzardo da parte nostra? Avevamo due figli minorenni, e in fondo non sapevamo neppure cosa aveva fatto Stefano per meritarsi il carcere; non glielo avevo mai chiesto, né lui me lo aveva scritto… Inoltre non potevamo neppure consultarci con i più intimi della comunità, a casa di parenti per quel periodo natalizio. Lo stesso don Flavio da qualche tempo era stato trasferito in un’altra parrocchia… Io e mio marito ci siamo guardati in faccia. Giorgio – gli ho detto -, sto pensando alla mia Parola di vita… io mi sento di fidarmi di Dio. E lui: Va bene, fidiamoci e facciamolo venire. Vorrà dire che gli cercheremo un alloggio per il primo periodo. Stefano è arrivato da noi il 29 dicembre, proprio il giorno del mio compleanno. La sera andava a dormire in un alberghetto dei dintorni, finché gli abbiamo trovato alloggio presso una piccola casacomunità. Ha resistito lì non più di quindici giorni. Ma siccome nel frattempo avevamo approfondito la sua conoscenza, con i figli abbiamo deciso di farlo venire da noi: avrebbe condiviso la cameretta di Cristiano. Pensavamo ad una soluzione di qualche mese, invece Stefano la casa l’ha trovata dopo un anno e mezzo: così ha vissuto da noi per tutto questo tempo, prima di trovare lavoro ed un inserimento nella società. Fin dal primo giorno noi gli abbiamo dato fiducia, dandogli anche le chiavi di casa, e lui si è sempre comportato bene. Da noi, ripeteva, aveva sperimentato per la prima volta cos’è una famiglia vera. Anche per i nostri figli era come un fratello maggiore. Un solo spiacevole episodio ha interrotto la normalità di questa convivenza, e non per colpa di Stefano. Nel bel mezzo di una notte ci hanno svegliato dei poliziotti: erano venuti a prelevarlo perché c’era stato un furto in paese e qualcuno diceva di averlo visto aggirarsi insieme ad un altro là dove era successo il fattaccio. In effetti, prima di rientrare verso le 22.30, Stefano aveva fatto il suo solito giretto. Che fare? Giorgio poi faceva un turno di notte ed era via… così ho affidato Stefano alla Madonna. In questura, dove l’hanno pestato, lui ad un certo punto avrebbe voluto reagire, ma per fortuna aveva sentito una forza che lo tratteneva. Per questa faccenda in paese anche noi siamo stati visti male. Era corsa voce che in casa nostra avevano trovato della droga, che mio marito era stato arrestato… In seguito ho avvicinato la persona che aveva divulgato queste assurdità e c’è stata una spiegazione: così anche quel rapporto è stato riaggiustato. Tuttora consideriamo Stefano uno della famiglia. Non passa giorno senza che ci telefoniamo e lui è sempre presente alle nostre ricorrenze importanti. Il secondo episodio narratomi da Bruna riguarda invece un sacerdote ammalato di depressione, che lei e suo marito hanno seguito per anni. Nel febbraio del ’94, quindi quando Stefano viveva già per conto suo, una suora amica ci ha segnalato la situazione di un prete della diocesi di Vicenza, uno stimato docente di teologia morale e di filosofia ospite del suo convento dopo essere stato presso una casa di cura perché ammalato di depressione. Le suore avevano bisogno di aiuto in alcuni momenti della giornata per farlo sentire meno solo e più circondato di cure e di affetto. Giorgio ed io ci siamo messi subito a disposizione. Don Giovanni a quel tempo aveva 54 anni e fino ai 50 non aveva sofferto neanche di un mal di testa. Oltre ad andarlo a trovare, gli facevamo fare delle passeggiate e lo invitavamo da noi il sabato e la domenica. Così per alcuni mesi, condividendo momenti più sereni ed altri invece in cui lui piangeva o si chiudeva nel mutismo. Cosa vorrà il Signore da me? era il suo assillo; con umiltà commovente riconosceva le sue paure e le sue fissazioni e chiedeva di essere aiutato. Più volte ho temuto che don Giovanni finisse per mettere in atto qualche gesto irreparabile, ma non potevo prevedere quel suo tentativo del gennaio del ’96. È avvenuto sotto i miei occhi e senza che potessi impedirglielo: approfittando di una passeggiata nei dintorni di Monte Berico, si è gettato in un canale. Non sapendo cosa fare ho pregato la Madonna: Mamma, aiutami e aiutalo! e così, gridando, sono riuscita a far accorrere qualcuno che è riuscito a salvarlo. Il giorno dopo sono andata a trovare don Giovanni in ospedale: Potevi gridare di meno, ché adesso sarei a posto, ha detto; ma in seguito più di una volta mi ha ringraziata. Questo contatto fatto di telefonate e di visite è continuato anche quando lui è andato via, prima in Piemonte e poi in Liguria; una volta tornato nella sua diocesi, andavamo a trovarlo a Vicenza anche tre volte la settimana alternandoci io e Giorgio o anche insieme. E così fino al 2002. Don Giovanni era sempre felice di vederci: erano i suoi veri momenti di serenità in mezzo alle angosce della depressione. Poi finalmente ha cominciato a star meglio e ha potuto riprendere i suoi studi e la sua attività di insegnante, cosa a cui teneva moltissimo. Io lo incoraggiavo sempre: Guarda, don Giovanni, che puoi essere ancora utile a tanti. Non immaginavo però che, oltre a riprendere a fare corsi per fidanzati, sposi, religiosi e sacerdoti, si scoprisse anche come confessore. Perciò lo vedevamo più contento, anche se il suo star bene dipendeva dagli psicofarmaci. A questo punto abbiamo diradato le nostre visite. Sul momento lui c’è rimasto male, si sentiva come tradito, ma poi ha capito che era per il suo bene, che doveva imparare a camminare sulle sue gambe. A metà novembre 2005 un nuovo e più terribile crollo, probabile conseguenza della recente perdita di un fratello che era la roccia della famiglia, e della scoperta di una nuova malattia: il morbo di Parkinson. Negli ultimi tempi, un po’ per motivi di salute, un po’ perché assorbiti dai nipotini, non erano più così assidue le nostre visite a don Giovanni, ma nessuno di noi poteva prevedere quel gesto estremo dell’Epifania 2006, quando sotto un Eurostar nella stazione di Vicenza si è arreso alla fatica di vivere: caro don Giovanni, quanto hai sofferto, non dovevi farcela proprio più! La ferita è ancora viva in Bruna e Giorgio. Se per qualcuno questo coinvolgimento nella situazione di una persona in fondo estranea è potuto risultare esagerato, a loro non sembrava mai abbastanza. Il mistero che avvolge l’esistenza tormentata di don Giovanni non cancella però l’amore dato e ricevuto. Come esprimono queste righe di una sua lettera: Ringrazio ogni giorno il Signore di avervi incontrati, conosciuti e amati.

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